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Un altro "Day after", stavolta dalla Russia


di Giovanni Grazzini


La quarta edizione dell'Agrifilmfestival si è chiusa in bellezza (la bellezza dell'orrore) col sovietico Lettere d'un morto, il cosiddetto «Day after» giunto da Leningrado. Dopo cinque giorni di proiezioni, seminari e dibattiti, tutti incentrati sul tema «La terra nel cinema e nei media», quel film è infatti venuto a incoronare con un lungo brivido nella schiena una manifestazione di vivo interesse, che ha il massimo punto di attualità nella riflessione ecologica. I corrispondenti da Mosca già hanno dato notizia del film. All'indomani della sua presentazione a Orbetello dobbiamo confermarne l'eccezionale valore, sul doppio versante politico e stilistico.

Si tratta, come si sa, d'un'opera sulla catastrofe nucleare, scritta dal giovane regista Konstantin Lopushanskij con Vjaceslav Rybacov e la collaborazione di Boris Strugatskij; l'autore che ispirò il Tarkovskij di Stalker. Accaduto il disastro, avvolte le macerie della terra in una nube grigia, un pugno di superstiti si è rifugiato nei sotterrane di un museo. Non importa sapere in quale luogo del mondo si sia, né se l'esplosione atomica sia avvenuta per fatalità o per errore umano. Mentre in superficie i governanti hanno instaurato un feroce sistema di controlli, inteso allo sterminio dei sopravvissuti che siano stati contagiati, quel gruppetto fa vita da talpa, votati alla morte e alla follia: fra di loro c'è chi si uccide, chi lamenta la fine del genere umano, chi predica l'odio universale.

Ma c'è anche uno scienziato, un premio Nobel, che pur delirando (scrive al figlio perduto, gli muore la moglie fra le braccia), si sforza di dare una spiegazione razionale della catastrofe. Egli si rifiuta di obbedire a chi ha ordinato ai superstiti di trasferirsi in un bunker più sicuro di quel sottosuolo. Preferisce restare con degli orfanelli che sono ancora in stato di shock, costruire per loro un rudimentale albero di Natale, ripristinare l'idea di tempo e spazio, e affermare che con uno sforzo di volontà e dandosi uno scopo la vita può riavere un senso. Poi muore, e i piccoli, riacquistata la parola, si mettono in marcia nel fitto della nebbia velenosa. Non sapremo mai se hanno trovato scampo, ma almeno la speranza non sarà stata cancellata.

L'importanza di Lettere d'un morto è innanzi tutto nella sua rinunzia all'ammaestramento ideologico.

Qui non è più questione di comunismo o di capitalismo, di chiamare l'America responsabile della minaccia nucleare. Ammettendo che il tragico errore sia avvenuto nel Paese in cui i sopravvissuti parlano russo, dove la polizia ha modi brutali, il mercato nero e la roulette anno resistito persino all’atomica, e tuttavia persistono certi rituali civili come il fare le condoglianze per la morte d'un parente, il film accetta senza imbarazzo che il luogo della sciagura possa essere identificato con l'Unione Sovietica.

Gli preme ben altro. Gli preme fare il processo a tutta la civiltà, a ogni politica, scienza e tecnologia che abbia offeso la natura e isterilito il pianeta col comportamento paranoico di chi costruisce nel contempo musei e strumenti di sterminio.

Siamo insomma sul terreno dell'umanesimo perenne che anche la cultura sovietica, spesso in polemica con quanti calpestano i diritti civili, sa rivendicare, e del quale è il massimo traguardo l'ideale artistico, con gli elementi mistico-religiosi in esso custoditi.

Siamo cioè, se si eccettua il dolciastro dell'albero di Natale fissato con occhi innocenti dai bambini, nell'universo, di Tarkovskij, del quale Lopushanskij non a caso riecheggia molti stilemi (i primi modelli sono Stalker e Lo specchio): il lugubre crepuscolo, la decomposizione del paesaggio, i simboli cristiani, i visi e le voci stravolte, il ricorso alla musica classica (qui l'ecatombe è accompagnata dall'Euridice di Caccini, mentre la maggior parte del commento sonoro è di Fauré).

Lettere d'un morto avrebbe avuto via libera dalla burocrazia moscovita prima dell'avvento di Gorbaciov e deì nuovi dirigenti dell'Unione cineasti? Non è molto probabile, perché gli avrebbero addebitato di essere deprimente, linguisticamente astruso, e troppo violento nel denunciare le sconfitte della storia e della Ragione. Oggi il film può circolare (ed è significativo che sia stato anche mandato all'estero) perché a suo modo è in sintonia con la propaganda del Cremlino per la sospensione degli esperimenti atomici, e forse ciò basta all'autorità politica. Ad occhi occidentali Lettere d'un morto segna però più d'un punto in favore del cinema sovietico. Mentre sottintende la riabilitazione del capofila Tarkovskij, premia in Lopushanskij un talento espressivo che nell'ordine del fantastico è inequivocabile.

Tutta la scenografia, putrescente e sinistra (con i superstiti costretti a indossare maschere e scafandri quando salgono in superficie), la scomparsa di ogni altro colore che non sia il nero e il cinereo dopo il lampo delle esplosioni, le piaghe prodotte sul volto della Terra e su quanto resta del corpo sociale, il delirio e la crudeltà mischiati ai gesti pietosi sullo sfondo d'un rombo continuo di grida e lamenti, l'accento posto sull'amore, unico baluardo contro l'apocalisse prossima ventura, l'intensità degli attori (fra i quali Roland Bykov) rivelano infatti scelte stilistiche e morali notevolissime in un esordiente.

Lettere d'un morto è un film horror, sul fragile ottimismo che l'uomo può opporre all'indifferenza del cosmo. Ma è anche la sferzata degli innocenti contro i signori della guerra, che guidati dalla prepotenza e dalla paura avviano noi e loro verso il sepolcro.






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