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di Roberto Escobar


Pol (Sam Louwyck) alleva api.

Con il figlio adolescente e disabile ne porta in giro le arnie per le campagne della Francia e del Belgio. Come lui, anche il suo miele è nomade. Ora lo insaporiscono fiori nati dove si parla francese, ora fiori nati dove si parla fiammingo. Pol stesso, fiammingo, talvolta si esprime nella lingua materna in mezzo ai contadini del paese vallone dove è giunto con la sua roulotte.

È questa la sua colpa, una colpa che si porta con sé, incorporata per il fatto di non aver radici che lo leghino alla terra, a una terra. Di questa colpa racconta "La quinta stagione" ("La cinquième saison", Belgio, Olanda e Francia, 2012, 93').

Il film di Peter Brossens e Jessica Woodworth inizia con un uomo e un gallo che si guardano fissi negli occhi. Pare che si interroghino, e che nessuno dei due conosca la risposta e ancor meno la domanda.

L'una e l'altra cominciano a delinearsi quando, sbucando dal niente, tre grandi manichini - una coppia di contadini e una mucca - irrompono sullo schermo alla testa di un corteo che si accinge a "far là festa" all'inverno, bruciandolo in effigie.

Le fascine però non prendono fuoco, e da questo momento si ferma il ciclo naturale del tempo. Erbe, piante, animali, tutto diventa sterile. Il mondo non conosce più vita né colore.

Chi è il colpevole? Chi ha rotto il legame con la nostra terra? Dopo essersi fatte queste domande, pian piano i paesani trovano la risposta, feroce: la colpa è dell'uomo venuto dall'altrove, dello straniero che parla un'altra lingua. Passano i mesi, cresce la fame, con la fame crescono la miseria morale, il sospetto e l'odio.

La stagione senza stagioni si fa padrona delle anime ancora più che della natura.

Come si immaginerà, di uscirne, se non con un altro corteo? Occorrerà appiccarlo, quel fuoco che non ha voluto accendersi. A qualcuno occorrerà farla, la festa.

Infatti, dal niente di nuovo sbucano i manichini.

Non è un caso che il film sia stato girato nel Belgio sempre più diviso tra valloni e fiamminghi. E non è un caso che Pol, il "colpevole", non abbia una sua terra, né voglia averne. La sua è una storia antica, certo non solo belga. In ogni crisi stanno in agguato la domanda e la risposta dell'odio. E può capitare che il rapporto causale venga capovolto. Può capitare che non sia la crisi a produrre l'odio, ma l'odio a produrre la crisi e a togliere vita e colore dal mondo. In ogni caso, chi ne paga le conseguenze sono gli uomini e le donne meno legati al fantasma delle radici, i più nomadi e liberi.






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