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Fantascienza italiana, la terra dei cactus


di Domenico Gallo


      Ricordando Bruno Baccelli, di Carrara

        This is the dead land This is the cactus land Here the stone images Are raised, here they receive The supplication of a dead man’s hand Under the twinkle of a fading star (T.S. Eliot, 1925)

Se è vero che la fantascienza ufficiale è nata in Italia nel 1952, quando il primo numero di Scienza fantastica, avventure nello spazio, tempo e dimensione apparve nelle edicole, ci avviamo a festeggiare un triste cinquantenario. Se si esclude poche eccezioni, l’affezionato lettore si è trovato a percorrere una terra desolata, sgomenta. I pochi autori dignitosi, le cui opere, rarefatte negli anni e pubblicate tra mille difficoltà, hanno comunque ottenuto un’attenzione circoscritta e una diffusione quasi clandestina. Valerio Evangelisti, che ha ottenuto uno strepitoso successo pubblicando a puntate su Il venerdì di Repubblica il suo romanzo Il mistero dell’inquisitore Eymerich, totalizzando un totale di tre edizioni della stessa opera, è forse l’unico scrittore che possa fregiarsi di tale nome, almeno per quanto riguarda l’interesse degli editori. Dobbiamo dunque registrare una sorta di insperata rinascita visto che Urania e la casa editrice Shake hanno annunciato antologie di autori italiani, e la rivista Avvenimenti ha ottenuto un discreto successo con volumetti di basso costo. Che i cactus abbiano perduto le spine?
In realtà, gli scrittori italiani hanno pubblicato una miriade di romanzi, iniziando proprio dal 1952, quando sulle pagine di Scienza fantastica sono apparsi i primi racconti nazionali selezionati attraverso un concorso tra i lettori. Seguirono altre effimere testate, come Mondi nuovi, quindicinale di avventure nello spazio (1952), Mondi astrali (1955),Galassia (1957), I narratori dell’Alpha Tau (1957), Cronache del futuro (1957), Cosmic (1957), Astroman (1957), Le cronache del futuro (1958), Poker d’assi (1959), I romanzi del futuro (1961), Super fantascienza illustrata (1961). Si tratta di veri e propri pulp, con tanto di alieni dalla carnagione verde, raggi colorati, astronavi ed eroine dalle scollature generose che fanno sognare i giovani lettori. Queste rivistacce, ormai quasi introvabili, sono assoluto monopolio degli scrittori italiani che, celati sono pseudonimi come Samuel Balmer (Sandro Sandrelli) o J.R. Johannis (Luigi Rapuzzi), scrivono fantascienza avventurosa nemmeno tanto peggiore dei loro colleghi statunitensi.
A partire dal 1957, per un decennio, I romanzi del cosmo pubblicano ben 202 numeri in cui si avvicendano numerosi scrittori italiani come Robert Rambell (Roberta Rambelli), John Bree (Gianfranco Briatore), Louis Navire (Luigi Naviglio), Hugh Maylon (Ugo Malaguti). Analizzando questa enorme massa di materiale, probabilmente più di un centinaio di titoli, risulta che la fantascienza italiana sussiste come fenomeno d’imitazione di quella anglosassone, non tanto per gli pseudonimi piuttosto per la scarsa originalità dei temi e per la sciatteria della lingua, del resto consona alle pessime traduzioni pubblicate.
Il problema della fantascienza di lingua italiana inizia a porsi durante la pubblicazione di Galaxy (1958-1964), di Galassia (1961-1979) e di Gamma (1965-1968), riviste che hanno proposto al pubblico italiano le traduzioni di testi del periodo sociologico e della New Wave. L’autore italiano, dovendo misurarsi con opere più orientate ai problemi politici e alle modalità della letteratura convenzionale, tenta una difficile mediazione tra la tradizione letteraria italiana e il realismo estremo della science fiction anglosassone degli anni Sessanta. Il realismo si coglie nel fatto che la science fiction radicalizza alcuni aspetti del presente, i più significativi di un’epoca sempre più orientata alla diffusione di massa delle tecnologie, spingendoli all’estremo in un futuro sempre meno remoto. La cultura italiana del dopoguerra, sia di destra che di sinistra, è caratterizzata da un’aperta diffidenza verso la scienza e la tecnica. Come osserva Michela Nacci in Tecnica e cultura della crisi (Loescher, Torino, 1982) e ne L’antiamericanismo in Italia negli anni Trenta (Bollati Borighieri, Torino, 1989), permane tra molti letterati italiani la nostalgia per la condizione rurale e il timore di un imbarbarimento dei valori prodotto dalla società di massa.
La letteratura italiana, se si esclude Italo Calvino, è impossibilitata a cogliere le modificazioni della società e dell’identità del moderno. Gli autori di fantascienza, probabilmente desiderosi di un riconoscimento letterario ufficiale, abbandonano il romanzo d’avventure a loro congeniale, che pure vantava una poco considerata ma gloriosa tradizione, per misurarsi con la crisi perenne dell’intellettuale del dopoguerra. È forse in questa contraddizione che nasce davvero una fantascienza italiana, una letteratura marginale e triste, rinchiusa su se stessa e schiacciata tra il modello anglosassone e la burocrazia narrativa dei Moravia, Parise e Bevilacqua. Vittorio Curtoni, nell’unico volume storico dedicato alla fantascienza italiana, Le frontiere dell’ignoto (Nord, Milano, 1977), descrive con grande cura questi anni, definiti da molti come eroici. Gli autori italiani pubblicano con il loro vero nome, cercano di presentarsi al pubblico assieme a Dick, Delany, Zelazny, Disch, Malzberg, Moorcock, ma il confronto è atroce.
Il tentativo editoriale più interessante è Interplanet (1962-65), una collana di 7 volumi, che raccoglie gli autori più raffinati del periodo. Con coraggio, Primo Levi, Ennio Flaiano, Tommaso Landolfi, compaiono a fianco delle prime opere di Lino Aldani e Renato Petriniero, gli unici due autori decisamente di fantascienza dotati di uno spessore letterario. E sarà proprio Lino Aldani a dirigere gli 8 numeri di Futuro, una rivista interamente dedicata agli scrittori italiani.
Lino Aldani rappresenta con la propria scrittura le difficoltà e le contraddizioni di un’intera generazione. Il romanzo Quando le radici (La Tribuna, Piacenza, 197) incarna in sé la visione antitecnologica e catastrofista del marxismo critico. La società tecnologica separa l’individuo dalla propria identità, lo aliena vanificando ogni alleanza di classe e ogni prospettiva di liberazione. La realtà contadina, comunque realisticamente destinata all’estinzione, si contrappone alla società alienante come ricordo e come rifugio. I suoi racconti assumono la dimensione moralista dei Minima Moralia di Theodor Adorno, ammoniscono, indicano, svelano, ma si richiudono nella lacerazione politica della nostalgia di un’epoca in cui le manifestazioni della società di massa non avevano ancora permeato profondamente la realtà italiana. Renato Pestriniero, veneziano, dotato di una scrittura attenta, sottile, elude il conflitto che incombe nella società italiana degli anni Settanta, e che sembra paralizzare Aldani, Vittorio Catani e tutta la fantascienza nazionale, e rivolge la sua attenzione all’unico recupero possibile della letteratura ufficiale: il fantastico. Pestriniero attinge alle immagini del folclore e della storia di Venezia, elude il tema della tecnologia e della scienza, almeno direttamente, sfumando sempre più la sua presenza nella fantascienza.
Nell’aprile del 1976, esce nelle edicole la più interessante rivista di fantascienza. Si tratta di Robot, diretta da Vittorio Curtoni, e incarna in sé gli entusiasmi politici che attraversavano la società di quegli anni. Nel contesto di una narrativa anglosassone di alto livello, Curtoni, autore del romanzo Dove stiamo volando (Galassia 174), inserisce, non senza polemiche, i più interessanti, ambigui e discutibili esempi di fantascienza italiana. Si tratta di "Visita al padre" (Robot 8) e "Screziato di rosso" (Robot speciale 4) di Lino Aldani, "Otto significa per sempre?" (Robot 12) di Gialuigi Pilu, "Il pianeta dell’entropia" (Robot 22) di Vittorio Catani, "In morte di Aina" (Robot 19) di Morena Medri. Se a questi si aggiunge un’antologia di racconti dello stesso Curtoni, La sindrome lunare e altre storie (Robot speciale 6), si coglie come un ristretto gruppo di autori abbia fatto proprie le pulsioni della fantascienza contemporanea anglosassone e incentrato i propri racconti su interessi linguistici, politici, di definizione dell’identità. Si è trattato di una breve estate, o, parafrasando un libro dedicato alla fine degli anni Settanta, Una sparatoria tranquilla (Odradek, Roma, 1997). Dopo Robot, come dopo la guerriglia del ’77, si instaura nella fantascienza italiana un allucinante clima di sospetto, si moltiplicano i pentiti, l’omologazione letteraria dilaga in quello sgangherato ambiente di appassionati, scrittori, critici, editori, illustratori chiamato fandom. La fine di Robot, giunta fino al numero 40, ma clinicamente morta con il in numero 28/29, è segnata dall’amareggiato commiato di Vittorio Curtoni, e, parafrasando le tragiche vicende dei movimenti, la fantascienza italiana è costretta alla clandestinità. Quella fiammata di new wave resiste e si sviluppa sulle fanzine, fino a giungere ai giorni nostri. Dapprima ciclostilate nelle sedi dei partiti, dei sindacati, delle parrocchie, poi, con l’avvento dei personal computer, graficamente dignitose, gli autori italiani scrivono sulle fanzine per un pubblico di poche centinaia di lettori. Svincolata dagli editor, dalle necessità di ritorno economico delle case editrici, si sviluppa una fantascienza radicale, oltraggiosa, orientata alla letteratura ufficiale per violentarla, deriderla, sussumerla, desiderarla come un corpo da amare. È l’epoca di scrittori politicamente irriducibili, capaci si descrivere la realtà di quegli anni solo attraverso le pesanti metafore della fantascienza, sono Daniele Ganapini, Gianluigi Pilu, Daniele Brolli, Claudio Asciuti, Domenico Gallo, e, in seguito, Franco Riciardiello, Roberto Sturm, Danilo Santoni. Scrivono su Lucifero, Intercom, The dark side, Un’ambigua utopia, mischiano alla fantascienza i personaggi dei fumetti, le icone dei media (come Ballard), la musica rock, i poeti maledetti, la narrativa criminale francese e americana, la ricerca di base, gli studi strategici. Un esempio per tutti, "Art Decade" (Un’ambigua utopia 7) di Claudio Asciuti.
Contemporaneamente, dilaga l’omologazione di massa. "Il fondo, però, si è toccato con la produzione di chiara impronta di destra. Sono usciti racconti in cui invincibili legioni dalla divisa nera schiacciavano l’Orda Rossa dei senzadio, in cui un papa futuro chiamava a raccolta contro i comunisti. Vera spazzatura." (Valerio Evangelisti, Il manifesto, 27-8-97). Evangelisti è ancora troppo tenero... Molti autori pagavano le spese di pubblicazione pur vedere stampati i loro orrori. Sono gli anni del fantasy, dell’heroic fantasy, dell’horror, del magico. Si è trattato di un fenomeno puramente ideologico, non di un’espressione letteraria, del resto perfettamente leggibile nell’ambito delmito tecnicizzato introdotto da Furio Jesi.
Il riscatto avviene lentamente, con i premi letterari dell’editore Nord e di Urania. Si tratta di opere diseguali, che vanno dalla pesantezza de Gli universi di Moras (Urania 1120), di Vittorio Catani, fino a opere estremamente ingenue. Almeno fino alla pubblicazione di Nicolas Eymerich, inquisitore, di Valerio Evangelisti, e vincitore del Premio Urania 1993. Sulla scia del successo editoriale, decisamente inaspettato, della serie di Eymerich, sembra che la fantascienza italiana si stia timidamente risollevando.






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