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Wes Craven e il serial killer: un gioco da "urlo"


di Maurizio Porro


Spasmodica tensione e divertimento in "Scream", opera del regista di "Nightmare" Wes Craven e il serial killer: un gioco da "Urlo" La vita è tutto un film. Il prof. Wes Craven, autore dei nostri migliori incubi - Nightmare con Freddy dalla mano adunca - ha diretto con Scream (Urlo), incasso record in America, il suo capolavoro. Cinema di genere, un horror tradizionalissimo, col serial killer che fa strage di adolescenti cretini in un campus scolastico nella piccola città americana; ma anche il tentativo riuscito di inserire nel racconto un discorso "al quadrato" sul cinema dello spavento, immaginando che l'assassino, mantellato e incappucciato nero e con la maschera dell'Urlo di Munch, sia un esperto di film del terrore e sottoponga le sue vittime - fin dalla prima straordinaria sequenza con la povera Drew Barrymore che viene appesa per la testa dopo un quarto d'ora - a quiz cinematografici. Tutta la storia, che serializza l'omicidio scolastico con l'aggravante di un antefatto di famiglia e allargandosi poi al corpo insegnante, diventa così, senza mai perdere in tensione, un "divertimento" al sangue in cui regista e spettatore giocano in modo emotivamente interattivo dinanzi alle situazioni canoniche del terrore. Craven finisce per prometterci, perché così si usa, un sequel (Scream 2 esce ora in Usa), avvisandoci che l'assassino più terribile è sempre quello della porta accanto. Il bello di Scream è che, nonostante la pretesa pirandelliana (Craven è laureato in lettere e filosofia), mantiene intatto il suo strepitoso potenziale emotivo: basta osservare la perfezione dei tempi della prima scena, quando la già citata Drew, ex bambina di E.T., sola in una casa fuori mano, viene seviziata col cellulare dal maniaco. Che poi passa ad un'altra vittima designata, mentre il gioco dei sospetti si fa più ampio, fino all'esemplare finale di massacro collettivo (anche il giornalismo tv scandalistico viene punito) in cui la verità si ribalta più volte e la citazione di sè e di altri (anche Carpenter e Jamie Lee Curtis) diventa crudelmente spiritosa: potrà la vergine salvarsi?

Seguono le regole per sopravvivere in un horror, con morale incorporata: "I film non fanno nascere nuovi pazzi, li fanno solo diventare più creativi". Fantasia, realtà e cinema diventano i poli di un gioco molto stimolante e divertente, in cui i più tipici teen agers americani assatanati e foruncolosi si mettono in posa come il ceto social - giovanilistico che l'horror ha sempre punito. Così vuole lo sceneggiatore "deb" Kevin Williamson che conosce il genere a memoria. Montando e smontando un intrigo psico - spaventoso (c'entra anche sir Alfred Hitchcock) che sembra non voler mai finire, perché anche questo fa parte del gioco, Craven raggiunge il suo meglio e impone allo spettatore una spasmodica attenzione, perché, pur con un margine dichiarato di gioco e la complicità della metafora sui tempi bui contemporanei, il meccanismo "de paura" funziona a meraviglia. Anche per l'adesione dei giovani stereotipati interpreti (Neve Campbell, David Arquette, Courtney Cox), mentre Henry Winkler, il Fonzie di Happy Days, subisce la pena del contrappasso dai suoi bei tempi del giovanilismo telefilmico di massa.






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