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di Carlo Pagetti


Un testo letterario esiste sempre in rapporto a una tradizione, anche quando si assume il compito di rinnovarla o di modificarla radicalmente. E stato più volte osservato che la fantascienza non ha solide radici nella tradizione narrativa del nostro Paese, che ha sempre seguito altre strade, dall'analisi psicologica alla denuncia, moralistica o meno, di certe condizioni sociali, evitando invece il fantastico come se fosse letteratura deteriore, buona al massimo per i bambini, ma poco adatta all'impegno severo di una rappresentazione "realistica" della società o della psicologia dell'individuo. Si può aggiungere che, almeno per quanto riguarda la letteratura di altri paesi "occidentali", la fantascienza si è sempre iscritta nell'area consistente del "romance" o romanzo fantastico-avventuroso. Questo è avvenuto soprattutto in America, dove, per buona parte dell'Ottocento, almeno fino all'arrivo di Howells e del realismo, il "romance" è la forma più importante di comunicazione narrativa in Poe, Hawthorne, Melville. Alcuni degli schemi più profondamente radicati nella fantascienza novecentesca si trovano puntualmente nei racconti di Poe e di Hawthorne, o in un romanzo come Moby Dick, con il viaggio per mare (viaggio nello spazio) di una ciurma in mezzo a cui sono presenti un po' tutti i popoli della terra (l'umanità del futuro), comandata da Ahab (il capitano dell'astronave terrestre, volto alla conquista dell'universo), alla ricerca della terrificante balena bianca (lo "alien" per eccellenza, antropologicamente così diverso che qualsiasi tentativo di comunicazione con esso è destinato al fallimento). Più tardi, all'inizio del '900, questa tradizione si fuse con elementi diversi e, più in generale, fu inglobata in quel culto della tecnologia e del progresso che doveva servire come cemento ideologico per una parte dei nuovi Americani emigrati dal Vecchio Mondo: come Hugo Gernsback o Isaac Asimov.

Anche in Inghilterra, dove pure dal '700 doveva trionfare il romanzo "borghese" di impianto realistico-psicologico, non viene mai meno la presenza alternativa di una forte componente fantastica, vuoi con intenti satirici e polemici (da Swift a Wells, da Huxley a Orwell), vuoi con propositi orrifico-moralistici (il romanzo gotico, il Frankenstein di Mary Shelley, ancora Wells, M. P. Shiel). Perfino in Francia, dove l'opera di Verne appare piuttosto isolata, non si può dimenticare che essa, come quella di altri scrittori della decadenza, interessati alle conseguenze "fantastiche" dello sviluppo scientifico, nacque anche come reazione alle "aberrazioni" del naturalismo di Zola e dei suoi seguaci. Non a caso, tra i firmatari del "Manifesto dei Cinque" pubblicato nel 1887 sul Figaro, che si dissociava violentemente dalle concezioni narrative di Zola, troviamo anche J.-H. Rosny, il quale, nello stesso anno, pubblicava Les Xipéhuz, "dove appare", come ci informa quella preziosa miniera di informazioni che è la Storia della Fantascienza di Jacques Sadoul, "per quanto ne so, la prima descrizione d'un incontro tra l'uomo e una razza minerale e intelligente che ha un modo di pensare totalmente dissimile da quello umano".

Nulla del genere si può trovare in Italia, salvo forse per una molto secondaria tradizione fantastico-satirica ispirata, nel Settecento, ai Gulliver's Travels di Swift. Recentemente sono stati ripubblicati, ad esempio, i Viaggi di Enrico Wanton ai Regni delle Scimmie e dei Cinocefali del veneziano Zaccaria Seriman, che risale al 1749 e che offre una visione satirica non priva di efficacia della società veneziana del tempo. Questa tradizione, troppo trascurata dalla nostra ctitica, ha avuto qualche buon esempio anche nel '900, soprattutto con un romanzo che, se fosse stato termina-o, avrebbe certamente dato un contributo rilevante all'affermazione del "genere" in Italia, b>Belmoro,di Corrado Alvaro, pubblicato incompiuto, per la morte del suo autore, nel 1957. Belmoro precipita "da una stella" in Italia, e visita un paese a noi noto, eppure cambiato perché sconvolto da una catastrofica guerra avveniristica, una "esplosione stellare", visto da occhi primordiali, che non conoscono la storia. E evidente, comunque, che in questo caso, come in altri degli stessi anni (Un Marziano a Roma di Flajano) o in successivi tentativi di Bacchelli, Soldati ecc. l'elemento propriamente fantascientifico tende sovente a diventare puro espediente di comodo, giustificato al più da intenti di satira sociale e politica. Questo filone si è in questi ultimi tempi ravvivato (ma anche immiserito) con la voga dei romanzi fantapolitici che ipotizzano, di solito in termini pessimistici, alcuni sviluppi della situazione politica italiana, come i recentissimi Nel Segno del Leone di Stefano Reggiani, Bersaglio 65 di Donato Martucci o Ferragosto Colpo di Stato, anonimo.

Quando, a partire dagli anni '50, la fantascienza anglo-americana cominciò a trovare un suo mercato in Italia, si ebbe il fenomeno degli scrittori che pubblicavano su Urania o sulle vecchie edizioni "Cosmo" con pseudonimi inglesi. In questi casi, più che di una scarsa coscienza delle tradizioni narrative nostrane, bisogna parlare di una volontà dichiarata di imitare i canoni - veri o presunti - della produzione "specializzata" con risultati che sarebbero da riesaminare, nel senso che l'impulso mimetico poteva anche tradursi in un fallimento dell'imitazione con l'emergenza di valori narrativi meno artificiosi e grossolani. Ricordo Risonanza Cosmica di N.H. Laurentix, pubblicato su Urania nel 1956, un curioso "pastiche" di vari motivi fantascientifici, desunti forse anche dalla lettura di Superman(allora, se non sbaglio, conosciuto in Italia come Nembo Kid) e da interessi che spaziavano dall'archeologia alla parapsicologia.

La polemica sulla "supremazia" della fantascienza anglo-arnericana, scoppiata sulle pagine delle riviste specializzate negli anni '60, doveva comunque portare rapidamente alla nascita di una "scuola" italiana, all'affermazione, cioè, di autori che intendevano consapevolmente contrapporre ai modelli anglo-americani una via nazionale alla fantascienza. Tra questa scuola e quella degli imitatori non corre un abisso, sia perché alcuni nomi si possono ritrovare in entrambe le categorie, sia perché anche gli innovatori avevano l'occhio rivolto - magari in senso polemico - all'America e accettavano comunque quasi tutti di lavorare all'interno di certe convenzioni narrative fondate dalla science-fiction di lingua inglese, accentuandone semmai i toni lirici, la perplessità rispetto al "progresso" tecnologico o il carattere di analisi psicologica ed esistenziale. I nomi più noti sono quelli di Gilda Musa, Roberta Rambelli, Aldani, Cremaschi, Sandrelli fino agli autori più giovani, che si sono affermati negli anni '70. In una posizione per così dire "defilata" possiamo collocare Roberto Vacca, per la sua qualità di scrittore-scienziato, attento, più che ai modelli narrativi americani, a certi sviluppi della scienza e della tecnica americana.

Roberto Vacca ci introduce a una quarta e ultima categoria di scrittori italiani che si possono iscrivere nell'area fantascientifica, quella, appunto, degli atipici o irregolari, che tuttavia hanno un genuino interesse per certi problemi posti dalla scienza o per certe dimensioni del futuribile, e utilizzano la forma aperta e anti-tradizionale del racconto o del romanzo fantastico. E a proposito di questi autori che recentemente Valerio Fissore ha giustamente parlato di "contributi occasionali di forti personalità letterarie inserite in contesti nazionali indipendenti". Possiamo ricordare Primo Levi (Storie Naturali), Guido Morselli (Dissipatio H. G.), ma soprattutto Italo Calvino, il nostro romanziere che più di ogni altro ha saputo calare una viva sensibilità per i processi tecnologici che costituiscono e determinano la nostra civiltà in forme narrative innovatrici, aperte alle più varie suggestioni fantastiche appartenenti a una tradizione atipica e, in Italia, sempre prudente, quella della prosa scientifica di Galileo, di certe stanze ariostesche, delle Operette Morali del Leopardi o di certe bizzarrie narrative degli Scapigliati lombardi. I racconti delle Cosmicomiche e di Ti con Zero che, seppure in modo improprio, si possono più facilmente efinire "fantascienza" trovano una loro rispondenza coerente, nel diverso modularsi degli statuti narrativi, nei romanzi allegorici dei Nostri Antenati, nei romanzi di impegno civile e politico, nell'interesse sempre vivo di Calvino per la favola, o anche in interventi di sapore saggistico come il recente articolo "Quando va via la luce", apparso sul Corriere della Sera del 16 luglio '77 dove la ricostruzione competente e non pedantesca o puramente moraleggiante del black-out degli impianti elettrici di New York diventa oggetto di lucida riflessione sulla crisi apocalittica che grava sulla nostra epoca imbevuta di mitologie tecnologico-consumistiche: "Cade il fulmine su una centrale periferica e la città sparisce. Nuova York, una delle più intense concentrazioni di luce del pianeta, s'oscura come un astro spento...". Potrebbe essere l'inizio di un romanzo di fantascienza.

© Carlo Pagetti, Pescara, agosto 1977 (Apparso come introduzione a:
Vittorio Curtoni, Le Frontiere dell'Ignoto, ed. Nord, 1977)






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