Il detective torna alla tradizione e sventa un complotto politico
di Paolo Mereghetti
Pochi personaggi nati da un'invenzione letteraria - penso a Pinocchio; forse a Batman - hanno una identità così forte e precisa come Sherlock Holmes. Puoi cercare di aggiornarlo, ammodernarlo, stravolgerlo fin che vuoi, alla fine esce sempre l'animo (e l'anima) dell'investigatore deduttivo, con la sua «estrema ripugnanza a comunicare i propri progetti agli altri prima che il momento dell'azione fosse venuto» e con il suo «carattere dominatore, poco proclive ad ascoltare osservazioni o consigli» ma con «una certa passione per i colpi di scena stupefacenti e improvvisi».
È quello con cui sono stati costretti a fare i conti Guy Ritchie e i suoi sceneggiatori Michele e Kieran Mulroney quando si sono trovati di fronte il compito di sfruttare l'imprevisto ma consistente successo (più di 500 milioni di dollari) dello Sherlock Holmes del 2009. Continuare nell'invenzione pura (in quel film si utilizzava certo più la passione di Conan Doyle per lo spiritismo - penso al volume autobiografico La nuova rivelazione - che non la sua abilità di giallista) o tornare alla «tradizione»? Il cambio di sceneggiatori mi sembra indicativo del cambio di rotta, pur con tutti i possibili distinguo portati dalla necessità di confermare un'estetica visiva al passo coi tempi (o presunta tale). Anche se le scene d'azione che vedono Holmes protagonista - che prima «pensa» al rallentatore le mosse (per il proprio agio e soprattutto per quello dello spettatore) e che poi le mette in atto alla giusta velocità - sono ridotte rispetto al primo film e hanno una funzione soprattutto illustrativa, un po’ come le tavole fuori testo dei vecchi libri di lettura, e non sono mai davvero funzionali alla progressione narrativa. Se non nello scontro finale con il professor Moriarty, dove comunque la realtà dell'azione è molto ridotta rispetto alle elucubrazioni preparatorie.
E così arriviamo al cuore dell'operazione che, come già fatto intuire nel film precedente, recupera la centralità del nemico numero uno di Holmes e sullo scontro con lui costruisce tutta la forza del film. Certo, qualche aggiornamento è necessario e il temibile avversario non è più «solo» un perfetto criminale, astuto e inafferrabile, ma anche un fine stratega politico che vuole sfruttare l'inimicizia franco-tedesca (siamo nel 1891) per favorire il commercio di armi di cui è diventato il massimo produttore europeo (non siamo ancora nel mondo della globalizzazione). E che nella speranza di una guerra, non esita a sacrificare sul piatto dei propri affari qualche vita umana: meglio se di ambasciatori o plenipotenziari.
Spetterà naturalmente a Holmes e al suo fido amico Watson (liberato velocemente della presenza dì una «pletorica» moglie: la misoginia di Conan Doyle non manca neppure qui, indicativa probabilmente anche di una personalissima rivincita del regista, per troppi anni relegato a essere «mister Madonna»), spetterà a loro due smontare, con l'aiuto di una intraprendente zingara veggente (affidata a Noomi Rapace), le perfette macchine mortali di Moriatry e del suo infallibile braccio destro colonnello Moran. Prima in una Parigi, dove gli attentatori si nascondo nelle cantine delle cucine (e i «cattivi» usano il Don Giovanni per mascherare i propri piani), e poi in Svizzera, in un castello arroccato sui monti, sopra una cascata che ricorda quella di Reichenbach (e qui i lettori di Holmes possono intuire quello che gli spettatori vedranno solo alla fine del film).
Ma anche se la storia non deve quasi niente ai libri di Arthur Conan Doyle (se non, appunto, per la conclusione di Il problema finale) e i personaggi creati dallo scrittore sono spesso «aggiornati» ai gusti di un popcorn movie (come il fratello di Sherlock, l'imperturbabile Mycroft), si intuisce nel film il bisogno - o la necessità - di rispettare lo spirito del personaggio. C'è un più evidente equilibrio tra improvvisazioni estetiche e progressione narrativa; tra i pirotecnici movimenti di macchina ideati da Guy Ritchie e la ricerca di una logica del racconto che rispetti i momenti canonici del genere (c'è persino la scena in cui i due eroi sembrano definitivamente sconfitti), tra libertà inventiva e rispetto della tradizione, tra sorpresa e godibilità. Anche la recitazione degli attori, a cominciare dallo Sherlock Holmes di Robert Downey jr. e dal dottor Watson di Jude Law è meno esagerata, meno sopra-le-righe (e decisamente meno cripto-gay) del film di due anni fa.
Per non parlare di Jared Harris come Moriarty (solo il Mycroft di Stephen Fry è decisamente grottesco, ma quella sottolineatura era nelle regole del gioco).
Come se alla fine anche il «dissacratore» Ritchie non abbia potuto che inchinarsi di fronte a un personaggio troppo preciso e cesellato per accettare (o sopportare) un qualche tipo di modernizzazione.
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