Apocalisse Cannes
di Alessandra Mammì
È così che comincia la fine del mondo: alle 18,53 e 20 secondi del 4 luglio 2005 con un fungo atomico che cresce sui barbecue, le bandierine, le coccarde, le tartine al burro di noccioline dei californiani in festa nazionale.
Così comincia la fine del mondo e il film di Richard Kelly "Southland Tales".
Operazione ai limiti del multimediale di due ore e 40 minuti, 150 diversi personaggi, musiche originali di Moby, sei diverse case di produzione, un sito web tra i più elaborati della storia del cinema (www.southlandtaleso com), storia impossibile da raccontare ma che sta già per essere tradotta in una trilogia di volumi a fumetti. “"Southland Tales" è un cocktail i cui ingredienti sono al 30 per cento commedia, 30 per cento musical, 30 per cento thriller e 10 per cento fantascienza” dice il regista, 31 anni, già in concorso a Cannes pur avendo alle spalle un unico film, "Donnie Darko".
Un vero caso, un culto giovanile: presentato al Sundance nel 2001, disprezzato da tutti i distributori, il romantico catastrofico "Donnie Darko" interpretato da un esordiente Jackie Gallighan si impose da solo a forza di blog, siti, web club e una tribù globale e internettistica di giovanissimi fans. Ci mise qualche anno però, durante i quali Richard Kelly passava il tempo a cercare invano distributori e cadeva in crisi depressiva convinto che la sua carriera fosse finita prima di cominciare. È in tale stato d'animo che scrive questo film, poi, racconta, manda il soggetto al suo attuale produttore Sean McKittrick, che in un bar di Venice Beach gli dice: «È la migliore cosa che tu abbia scritto». Che cosa ci fosse scritto non lo sappiamo, ma deve essere stata una sintesi convincente dell'allegoria corale che unisce fantascienza, anni Cinquanta, pop art a piene mani e brani evangelici. Un Trionfo della Morte cibernetico-politico-religioso dove per orientarsi è necessario conoscere la storia almeno a grandi linee.
Dunque: un attacco terroristico nucleare ha messo in ginocchio l'America, riempiendola di poliziotti cattivi, gruppi marxisti anarchici e fricchettoni, spacciatori di armi, cecchini dappertutto. Chiunque gira armato fino ai denti: persino il bagnino sulla spiaggia è provvisto di un mitra ad alta precisione ed è un veterano della guerra in Iraq. Unico spiraglio di un mondo migliore arriva da un gruppo di scienziati tedeschi che hanno messo a punto un sistema dal nome new age "Fluid Karma" per ricavare energia pulita dai flussi dell'Oceano e risolvere la crisi petrolifera. Verrebbe buono anche perché siamo nel 2008, e ancora non è finita la guerra in Iraq. Il sistema però modifica impercettibilmente la rotazione terrestre, creando buchi spazio-temporali che producono antimateria e alterano una realtà già abbastanza alterata di suo. Almeno quanto gli scienziati tedeschi nati dalla fantasia allucinata di Kelly: una famiglia Addams vestita come gli acrobati di Le Cirque du Soleil.
In questo inferno prossimo venturo si aggirano i nostri eroi: una star di film d'azione di nome Boxer Santaros (interpretato dal campione di rugby The Rock) in preda ad amnesia; un poliziotto con alter ego venuto fuori dal buco spazio-temporale; un gruppo di neomarxisti guidati da terribili dark ladies; un trafficante d'armi che vive in un camioncino di gelati (Christophe Lambert); e una porno star, Krysta Now, ancorwoman di un talk show televisivo sulle questioni fondamentali del nostro tempo, Tipo: "Se si hanno rapporti sessuali sul volo Londra-Los Angeles e si prende la pillola del giorno dopo, non rischiamo che per colpa dei fusi orari diventi la pillola del giorno prima e non funzioni?". Segue dibattito fra pornostar.
Qui siamo al 30 per cento di commedia: ma Richard Kelly sbarcato a Cannes insiste nel dire che il suo è soprattutto un film politico.
Meglio, «un film che parla dell'ossessione della celebrità, della paranoia e soprattutto di politica». Ha ragione: politico è il continuo riferimento all'Iraq, che per motivi generazionali ha cancellato la memoria del Vietnam, politica è la presenza sovrastante e continua della religione scandita da una voce fuori campo che recita brani dell'''Apocalisse'', evocando arcangeli e anticristi: politici i gruppi marxisti che si nascondono nelle suburbia di Los Angeles e tengono in freezer una scorta di indici amputati per alterare il voto elettronico delle prossime elezioni; politico è il riferimento a una scienza che sfida le leggi fisiche per obbedire a quelle economiche. Politico è l'affresco di un'America in disfacimento che trascina nel suo crollo il resto del mondo.
Se Cannes aveva annunciato questo Festival come edizione dei film mutanti, questo sicuramente è il mutante per eccellenza. Ci si aspettava molto da "La Princesse" di Pal Erdoss, cartoon sulla vita di una pornostar, e da "Red Road" di Andrea Arnold. Ma l'unico all'altezza di questo delirio è l'ottimo "Taxidermie", parto della fantasia macabra e policroma dell'ungherese Gyorgy Palfi, al cui confronto persino Matthew Barney sembra Disney. Ma se "Taxidermie" è tipico prodotto di autore-artista, "Southland" è invece un film generazionale. Nel suo tentativo di opera totale Kelly ha inglobato tutto il cinema, il fumetto e la tv che hanno nutrito gli attuali trenrenni americani. C'è il David Lynch di "Dune", il "Mars Attacks" di Tim Button, il culto del B movie alla Tarantino. Più, per stessa ammissione del regista, la Los Angeles del "Grande Lebowsky", il futurismo delirante di "Brazil" e la capacità profetica di "Blade Runner". Più la citazione diretta di "Kiss Me Deadly" di Robert Aldrich, di cui compare una sequenza in un televisore: sentito omaggio del giovane Kelly alla fantascienza anni Cinquanta, quella che metteva sullo schermo ultracorpi in arrivo dallo spazio, ma in realtà parlava di comunisti in casa e sovietici oltre cortina.
Politica è dunque anche la postmoderna citazione, in un Festival ad alto tasso politico dove l'immagine dell'America arriva spappolata almeno quanto gli hamburger pieni di merda di vacca del "Fast Food Nation" di Richard Linklater. «Ma non facciamola lunga, basta cuocerli e non si ammala nessuno», come dice Bruce Willis nei panni di un manager dell'industria alimentare pratico, repubblicano, texano e americano vero.
O ancora l'America di "Shortbus" di John Cameron Mitchell, anche lui al suo secondo film dopo "Hedwig", dove un gruppo di trentenni in crisi pensa di risolvere con il sesso i problemi di una generazione che ha scoperto nell'attacco alle torri gemelle finalmente “qualcosa di reale”.
Perché i protagonisti di "Shortbus", di qualsiasi sesso siano, hanno in comune il problema di non arrivare all'orgasmo, di non riuscire a penetrare la realtà che ha più desideri. E che il più potente paese del mondo sia in piena crisi di identità lo dimostra la spietata doppia rilettura dell'inno nazionale sia nel film di Richard Kelly (dove il testo modificato si trasforma in inno alla guerra) sia nel film di John Cameron Mitchell, dove è cantato da uno dei gay protagonisti durante un ginnico amplesso a tre.
E allora in questa caduta agli inferi si capisce l'ossessione di un'Apocalisse annunciata dalla religione, dalla scienza, dalla politica, dalla guerra. «È così che finisce il mondo: non con un boom ma con un gemito», dice Kelly citando Eliot e dimostrando di essere un ragazzo colto. Forse un po’ troppo per credere davvero all'Anticristo. Di certo però ci credono tutti i sei produttori, pronti a lanciare un'Apocalisse Multimediale fatta di playstation, cd, gadget, libri a fumetti e magari un "Sourhland Tales" sequel. Perché "business is business" anche se finisce il mondo.
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