Clint per tutte le stagioni
di Lietta Tornabuoni
Clint Eastwood sarà stato magari anche troppo mitizzato, avrà ricevuto un eccesso di premi e un posto esageratamente rilevante nella storia del cinema (capita a tutte le vecchie star fortunate, e lui ha settant'anni), però ha fatto con "Space Cowboys" un film intelligente e toccante sulla senilità propria, della generazione a cui appartiene, della moralità del grande Paese americano.
Eastwood mette a confronto quattro vecchi e bravi astronauti, mandati a casa nel 1958 quando la sperimentazione spaziale Usa da militare che era (Air Force) passò a un organismo civile (Nasa); l'industria americana più obsoleta, decadente e quasi inerte dopo i fasti del passato, che è quella spaziale; la degradazione della politica e del patriottismo a complottismo, carrierismo, vendetta, rivalità. L'impresa che unicamente i vecchi astronauti possono compiere perché deve esercitarsi su una tecnologia vecchia che soltanto loro conoscono, consiste nell'impedire che un satellite russo di Comunicazioni precipiti sulla Terra: ma il satellite racchiude in realtà testate nucleari ed è frutto di spionaggio o di tradimento politico-industriale.
I protagonisti rugosi dal passo incerto possono continuare, scherzando o no, a parlare di "quattro scorreggioni nello spazio", di dentiere che a tavola saltano fuori dalla bocca, di incontinenza, vista appannata, ossa dolenti, fiato corto, amici morti: l'ambiente in cui si muovono, appena meno vecchio di loro, patisce una decadenza analoga. Non c'è contrasto fra passato e presente, fra vecchiaia e gioventù: tutto è passato, tutto è senescente.
Sono emozioni da settantenne.
Clint Eastwood le racconta con malinconia commovente, con struggimento ironico, benissimo. Accanto a lui gli altri interpreti sono adeguati: James Gamer (75 anni) è veramente un po’ troppo imbambolato; a Tommy Lee Jones, 53 anni, troppo giovane, viene affibbiato un cancro al pancreas.
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