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Il riscatto del comandante Kirk diverte tra mito e fantascienza


di Paolo Mereghetti


Confesso senza molti sensi di colpa di non essere un fan di Star Trek. Quando arrivò in Italia il telefilm avevo già fatto la mia scelta per Guerre stellari e i vulcaniani con le orecchie a punta o la leggera adipe che si intuiva sotto la maglia troppo attillata del comandante Kirk mi sembravano troppo naif a confronto con Luke Skywalker o Han Solo. Ma devo anche dire che i due film diretti da J. J. Abrams - Star Trek nel 2009 e adesso questo Star Trek - Into Darkness - mi hanno appassionato e divertito, facendomi in parte ricredere sulla possibilità (prima per me incomprensibile) che si possa diventare «trekkisti».

Lo sforzo di ridare smalto e fascino cinematografici ai personaggi inventati da Gene Roddenbeny a metà degli anni 60, Abrams se l'era in buona parte sobbarcato con il film del 2009, curiosissimo esempio di reboot che faceva «ripartire» la serie ringiovanendo i personaggi (e quindi raccontando storie che erano avvenute prima di quelle viste al cinema o in tv) ma aprendo anche la narrazione su un possibile seguito. Un prequel che era anche un sequel. Adesso, con Into Darkness, Abrams può capitalizzare quel gran lavoro di ricostruzione mitologica della serie e continuare nell'opera di «svecchiamento» ma anche di «riposizionamento». Aiutato sempre dagli sceneggiatori Alex Kurtzman e Roberto Orci, a cui si è aggiunto per l'occasione Damon Lindelof, tutti abilissimi nel coccolare i fan della serie con rimandi e allusioni a episodi e battute diventati «storici», ma capaci anche di conquistare gli spettatori nuovi con una storia godibilissima anche se non si ha una conoscenza enciclopedica del mondo trekkiano.

Lo si scopre immediatamente nelle primissime scene quando il doverismo «kantiano» di Spock (Zachary Quinto) lo spingerebbe a sacrificare la vita per compiere la missione che gli è stata affidata (bloccare l'eruzione-esplosione di un vulcano per salvare una popolazione primitiva dalla distruzione) mentre l'insofferenza un po’ «anarchica» alle regole del suo superiore Kirk (Chris Pine) metterà in campo l'eterna risorsa del cinema hollywoodiano: elogio dell'individualismo più senso dell'amicizia. Con un «surplus» di citazioni cinefile che mescolano Indiana Jones a Star Wars e aiutano a capire perché lo stesso regista sia stato incaricato di far ripartire con un suo film anche la serie «antagonista» inventata da George Lucas. Il che, tra l'altro, permette di notare come anche il bagaglio immaginario della fantascienza non sia più organizzato a comparti stagni ma obbedisca a inevitabili sollecitazioni crossover, con un Kirk che ha qualche cosa del ribellismo anticonformista di Han Solo (e che sembra aver imparato da lui a guidare un simil Millennium Falcon quando deve sfuggire alla caccia dei klingoniani) mentre Spock nel duello finale con Kahn pare inseguire movenze e situazioni da Avengers. Pur restando tutti saldamente all'interno della mitologia trekkiana.

La storia del film è quella - molto avvincente - della lunga riabilitazione morale di Kirk, degradato dopo aver infranto le regole per salvare Spock all'inizio del film ma poi riabilitato nel comando dell'Uss Enterprise quando ìl terribile Kahn (Benedict Cumberbatch) sembra voler dichiarare una guerra personale alla Confederazione. Guerra che naturalmente nasconde molti segreti e che servirà a smascherare anche le ambizioni egemoniche e le tentazioni belliche dell'ammiraglio Marcus (Peter Weller). Ma solo dopo che lo spettatore avrà capito che le tentazioni più pericolose per l'umanità vengono dal suo stesso passato (è da li che spunta fuori il superuomo Kahn e i suoi settantadue sodali) e che disastri come quello dell'11 settembre - c'è una scena che lo cita quasi alla lettera, con un'astronave al posto degli aerei kamikaze - hanno le loro origini nella scelta di privilegiare l'uso della forza invece che l'esercizio della pace. Come ho detto all'inizio, le citazioni e le allusioni alla mitologia trekkiana non si contano (e in parte sfuggono ai non adepti come me). La più evidente è la presenza di un «tribolo», specie di palla di pelo su cui il dottor Bones (Karl Urban) sperimenta la forza rigenerativa del sangue di Kahn e che rimanda all'episodio «Animalettì pericolosi» (The Trouble with Tribbles) della seconda serie tv. Ma cogliere o meno questi rimandi non inficia il puro piacere visivo e narrativo che Abrams sa innescare nello spettatore, riuscendo ancora una volta a far rinascere dalle sue «ceneri» un mondo fantastico che sembrava appannaggio solo dei fan puri e duri. E adesso, dopo la missione compiuta con Into Darkness non ci resta che aspettarlo per Star Wars VII.






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