Quel diabolico patrigno
di Maurizio Porro
Una casa rosso sangue, nella provincia. Il pater familias ha appena terminato la sua strage, ha ucciso moglie e figli, come si legge nei giornali. Si fa la barba, rinnova il look, si compra un altro nome - Jerrv Blake – e, armato di tutto punto di un arcaico sentimento di odio e amore, va alla ricerca di altre vittime designate. L'America e grande. E infatti trova subito una Susan pronta a sposarlo, portandogli in dote tutta la sua ingenuità. Ma la figliastra, Stephanie, ha invece qualche dubbio. Qualcosa in quest'uomo dal passato misterioso non la convince: col patrigno ha un rapporto difficile, ne scorge in filigrana la violenza, e si confessa con un dottore amico.
Ma Jerry, il diavolo, probabilmente, sembra la reincarnazione dei Buon Marito americano, del commesso viaggiatore, dice di trattare immobili, dà il bacino alla moglie, prima di uscire, organizza i garden party nel weekend. Ma, mentre la ragazza continua le sue indagini, la follia dell'uomo riprende corso: ossessionato forse dall'idea di non poter offrire un amore totale, l'uomo decide di essere ancora una volta il boia, alla ricerca di qualcosa di assoluto. La prima nuova vittima è, appunto, quel dottore che qualcosa già sospettava, poi entrerà nel suo mirino un altro innocente e già l'uomo sta allestendo una nuova carneficina domiciliare, preparandosi con anticipo una terza identità. Inizia così l'ultimo agghiacciante quarto d'ora, su cui manteniamo un onorato silenzio.
Il patrigno-The stepfather, l'horror-scoperta dell'ultimo "Mystfest" di Cattolica, è un thriller in cui il regista, Joseph Ruben, suona una macabra sinfonia dai tempi perfetti, dove soltanto il finalissimo e immerso nel sangue e nelle tenebre, ma per il resto la tensione e tutta interiore.
Fedele alla regola hitchcockiana di partecipare il pubblico di segreti che altri, sullo schermo, non conoscono, Ruben, già autore di film adolescenziale e di un banale Dreamscape, ci obbliga a fare il tifo con un eccellente dosaggio di emozioni e insinuazioni, bagnando di sangue tutti i sogni americani.
Da parte, infatti, il film, scritto secondo le buone regole della più classica paura, da Donald E. Westlake, gambizza la più sacra delle istituzioni proprio nel personaggio perverso di un uomo che desidera un nucleo familiare e allo stesso tempo, nevroticamente, lo odia. Così il film, seduto sul lettino dello psicanalista, ci porta a visitare la fiera degli orrori dell'inconscio, con tutta la violenza che vi abita, in modi cinematografici molto tesi e non sempre innocenti.
Ma anche a leggerlo solo come un thriller, senza guardare nel doppio fondo, The stepfather è una molto ben organizzata trasferta all'inferno, complici attori non noti, ma in grado di diventarlo presto.
Il regista si affida giustamente agli occhi docili, isterici e spiritati (è qui la bravura) di Terry O'Quinn, che a scanso di equivoci ammette di amare molto la propria famiglia, senza ossessioni perverse. Ricalcando la maniera femminile di due generazioni di donne americane, anche le attrici Shelley Hack e Jill Schoelen, madre e figlia, sanno il fatto loro. Sono odii e amori semplici, che tutti più o meno conosciamo: il merito del film è di renderli ossessivi e allucinanti, legandoli con una tensione a orologeria, come fosse l'incubo della porta accanto.
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