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Affascinante Lynch. Ma chi è l'assassino?


di Lietta Tornabuoni


All'inizio e alla fine di "Strade perdute" (Lost Highway) di David Lynch, scorre nell'oscurità la striscia gialla che divide a metà un'autostrada percorsa in velocità: nella notte, il balenare intermittente di quel colore si ripete con implacabile monotonia, evocando un buio senza sogni, un senso di sospensione ansiosa, un sospetto. Insomma, il film: un'opera singolare per molte ragioni, innanzi tutto per il suo percorso.

Nel 1991, Lynch aveva diretto senza alcun successo la versione filmica di "Twin Peaks" il suo serial televisivo famoso in tutto il mondo. "Fuoco cammina con me" era il primo dei tre film previsti dal contratto firmato dall'autore con la società di produzione francese Ciby-2000: per arrivare al secondo ci son voluti quattro anni di progetti rifiutati, di telefilm andati male, di delusioni, umiliazioni, frustrazioni (tra i lavori impossibili c'era pure una versione della "Metamorfosi" di Kafka con rock'n roll, ambientata nell'America del 1956). La lavorazione di "Strade perdute", scritto da Lynch con Barry Giffond, cominciò nel novembre 1995, finì nel 1996; la prima volta che il film venne visto fu al festival americano di Sundance, nel 1997; in Italia e altrove arriva adesso, nel 1998 e nella stagione pre-estiva che è la peggiore, quella in cui i distributori mettono fuori i film più brutti oppure quelli maledetti da cui non sperano di ricavare soldi.

Il percorso sfortunatissimo dipende dal film. Vedendolo, agli amanti del cinema convenzionale, delle storie che somigliano a compiti scolastici (tema; inizio, svolgimento, fine), delle narrazioni conformiste, capita di chiedersi se David Lynch sia ammattito, se sia fumato, drogato, fuori controllo, se sia andato via di testa. Non è così. "Strade perdute" è un esempio estremo di quel cinema decostruito, destrutturato, che viola le regole romanzesche, i meccanismi causa-effetto, la logica razionale, tentando invece d'andare in cerca di mistero, di suscitare emozioni e ansia, di moltiplicare analogie ed enigmi. Lynch non è certo il solo in questa ricerca, che ricorda quella intrapresa tanti anni fa da Jean-Luc Godard: sono come lui Terry Gilliam, Tsai Ming-liang, altri.

Le loro opere possono entusiasmare oppure risultare insopportabili: certo sono le uniche estranee al pensiero commerciale, le uniche a proporsi di creare un cine-linguaggio adeguato al proprio tempo, a voler rispecchiare il caos contemporaneo.

In questo senso, "Strade perdute" è fantastico. Un uomo uccide (forse) la moglie perché la crede infedele. Non sopporta le conseguenze del suo gesto e fugge dalla realtà attraverso una forma composta di amnesia + fantasia. Immagina se stesso più giovane e virile (l'interprete Bill Pullman lascia qui il posto a un altro attore, Balthazar Getty), si immagina amato da una donna che desidera soltanto lui (Patricia Arquette, bruna e bionda, recita tutt'e due i personaggi femminili). Ma è così sfiduciato e folle che anche la vita immaginaria va male e persino le fantasie consolatorie diventano incubi, sinché il cerchio si chiude e il protagonista torna al punto di partenza. Il film naturalmente è assai meno semplice di così, assai più visionario e ricco: ogni apparizione contribuisce a farne quasi un'antologia del thriller americano, con i suoi luoghi comuni e i suoi archetipi; le continue dissolvenze ritmano il racconto lasciandolo indefinito, aperto; i macrodettagli caratteristici di Lynch moltiplicano la forza dell'illusione, le trappole. Lungo la sua strada difficile (magari perduta), il regista procede con affascinante coerenza, ancor più intelligente, seducente, inquietante del solito.






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