Romero: "I morti viventi? Sono più umani di noi"
di Giovanna Grassi
«Accadono cose selvagge nel mondo ... », sorride il signore allampanato, gentile e con eleganti occhialini.
L'affermazione del regista George Romero contiene una doppia valenza e varie allusioni: alla realtà insanguinata e inquieta di oggi e al suo film della paura, Survival of the Dead, in concorso a Venezia. Per molti aspetti l'ingresso di Romero nella competizione ufficiale è un evento, anche se da anni i cultori del suo cinema andavano predicando la promozione. Le Bibbie del cinema horror, come la rivista Fangoria, ma anche Entertainment Weekly, hanno scritto: «Finalmente».
Nato nel 1940 a New York, autore amato dagli studiosi del cine horror, uomo con molti interessi artistici, Romero è stato tante volte campione di incassi nel corso della sua carriera, ma sempre guardato con sufficienza da Hollywood malgrado nel 1968 abbia rinnovato il cinema della paura con La notte dei morti viventi, il suo film di culto, proprio in quegli anni di rivoluzioni e controrivoluzìoni, seppe interpretare i tumulti del mondo, ogni angoscia e disgregazione della società americana.
Romero, regista e produttore esecutivo, ha scritto anche la sceneggiatura del suo Survival of the Dead. Spiega: «Il nostro cinema è popolare e d'autore al tempo stesso e da sempre propone metafore sociali, politiche, sebbene ancorate allo spettacolo della paura. La mia ultima fatica sul tema dei morti viventi, la sesta, può anche essere letta come un western contemporaneo».
Racconta: "È una grande sfida tra due famiglie, tra i morti che ritornano alla vita e gli umani, in una società che non ha più regole, che le invoca nel finale. Due mondi dove ci sono spesso due partiti, fazioni, religioni, razze che si scontrano con odio, fanatismo. Lotte che diventano quasi tribali, sempre ferocissime". Aggiunge che l'idea di riprendere il tema degli zombies e di innestarlo sul western gli è venuta rivedendo Il grande Paese, 1958, il film pacifista di William Wyler, che lanciò con quella sua epica opera appelli alla non violenza, alla tolleranza. «Nel mio copione - spiega Romero - c'è chi vuole sterminare i morti che tornano alla vita e cercano carne umana e chi intende tenerli, integrarli, anche se guardati a vista, nella comunità o in un microcosmo famigliare, se vogliamo anche improntato a una religiosità cristiana. La polizia, i cacciatori mercenari di zombie, in fondo, sono la rappresentazione di un pericoloso militarismo, così come i padri/padroni delle due famiglie rappresentano quella che spesso è la dittatura di una cellula sociale o politica».
Survival of the Dead, nuovo capitolo della saga, sarà riproposto a Toronto nella sezione «Midnight Madness», sempre sold out e dove si rincontreranno autori della vecchia guardia, come lui, accanto a giovani registi e scrittori, dopo l'inaugurazione affidata a Jennifer's Body con la zombie Megan Fox. Nella prossima stagione, infatti, ci sarà uno «sfracello» di film horror, anche in 3D (il primo, Final Destination già guida da due settimane il box office americano) ed è anche bene ricordare che fu Romero, molto prima di Twilight, a rileggere con Wampyr (1978) il binomio amore e morte e, in anticipo su tutti i film tratti dai comic e dalle graphic novel, a riproporre i fumetti horror anni Cinquanta con Creepshow.
Ironico e inquieto Romero: «Più passa il tempo e più amo gli zombie e sempre meno gli esseri umani. Nei miei film gli esseri umani tendono sempre di più a disumanizzarsi». «Sì, è vero - osserva pensieroso -. Ho detto molte volte, io artigiano della paura, che a me negli ultimi anni ha procurato autentico terrore l'amministrazione di Bush. Ce ne siamo liberati davvero? Lo spero, ma i più feroci tra i morti viventi possono sempre ritornare.
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