Truman show, il film contro la tv spia
di Maurizio Porro
Che differenza c'è tra un capolavoro e un bel film? Che il primo intuisce un problema che sta nell'aria, s'inventa la sua drammatizzazione e diventa un termine di comparazione. Truman Show - 16a uscita dell'iniziativa «Grandi Film» del Corriere, in edicola lunedì a soli 3,50 euro, oltre al costo del quotidiano - fa parte di questa categoria e ci avverte sui pericoli mortali della società dello spettacolo. Dice il regista Peter Weir: «Il mio film è un antidoto per teleintossicati causa solitudine o illusione da soap opera. Viviamo nella falsità dei messaggi tv, più potenti della realtà, in un mondo che è solo decalcomania». Ha messo a fuoco, con crudeltà e ironia, il punto focale del mass media che più di ogni altro ci condiziona: Nostra Sorella Televisione.
In anticipo sul «Grande fratello», il film, sconvolgente ma anche divertente gioco di specchi sul legame tra mass media ed esibizionismo, ci racconta, parabola con la morale nascosta nella bottiglia, che viviamo un po’ tutti come il tipico middle class, il fantastico Jim Carrey, prigionieri di una realtà virtuale, causa oggi di molte diffuse infelicità. «Il film - dice l'attore quarantenne - vuole dividere la realtà vera da quella virtuale: non dobbiamo essere zombie della scatola dello spettacolo, ma i protagonisti della nostra vita». Tema disperatamente attuale, che è stato poi al centro di altri titoli: da Ed Tv, dove un giovane accetta di farsi riprendere in diretta, a Guy.
Del resto anche il cinema è virtuale. Forse si può dire che il racconto dell'australiano Peter Weir, uno che vede poco la tv ma ne percepisce tutti i rischi, scritto da Andrew Niccol - poi regista di Gattaca e ora di Simone - rappresenta quasi una lotta civile e mediatica nella quale il cinema attacca il «quinto potere» della tv, per dirla con Peter Finch. Ma bisognerebbe citare anche le fantastiche premonizioni del romanzo Myron di Gore Vidal, di La morte in diretta di Tavernier, la privacy negata di Nemico pubblico e di Pleasantville, fino alle fanta-violazioni di Minority report. La morale ce la porta a domicilio Weir ma è sotto gli occhi di tutti: «Lo spettacolo nei mezzi di informazione è diventato più importante della notizia».
La storia è quella di Truman Burbank, cittadino di Seaside, che si nutre ogni giorno della paccottiglia di falsità del video e che da 10.910 giorni vive senza saperlo proprio in una fiction tv, sorvegliato e ripreso non stop da 5000 videocamere che da quando è nato mandano in onda in diretta a puntate la sua esistenza in tutto il mondo: la vita è una soap, basta che sia quella altrui. Lo share condiziona ogni suo gesto e sentimento, nel suo quotidiano sono inseriti, a sua insaputa, anche gli spot. Quando Truman inizia a rendersi conto che qualcosa non va, il cinico regista Ed Harris potrebbe usare anche questa sua presa di coscienza per alzare l'audience.
Gli dice che la fiction è una culla calda: "Non c'è mondo migliore di quello in cui hai vissuto finora. Non hai niente da temere con noi". Solo gli Oscar non si sono accorti di questo grade film «rivoluzionario». Non premiare Carrey è stato un delitto hollywoodiano, senza castigo.
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