I nuovi robot ora sono tutti alieni. Finisce la guerra tra buoni e cattivi
di Paolo Mereghetti
È finito il tempo delle certezze. Non ci sono più i «buoni» Autobot e i «cattivi» Decepticon. Adesso sono tutti «alieni» e per mantenere la pace sulla Terra vanno distrutti. Questa almeno è la situazione su cui si apre Transformers 4 - L'era dell'estinzione, che se non è ancora un vero e proprio reboot della serie poco ci manca.
Guidate dall'ultra-efficiente agente Cia Harold Attinger (Kelsey Grammer), vediamo le truppe americane dare la caccia agli ultimi Transformers sopravvissuti. Non tutti, a dir la verità, perché uno di loro, dal volto inquietante e l'armamentario distruttivo, è loro alleato nella caccia e se la intende molto bene con Attinger, convinto che possa consegnargli l'introvabile Optimus Prime. Per scoprire le ragioni di questa strana alleanza bisognerà però aspettare un bel po’ dei 165 minuti di questa quarta puntata, che sembra trovare la propria ragion d'essere proprio nella complicazione delle tracce e l'intrecciarsi delle storie. Oltre che nella ripetitività delle situazioni.
A riorientare un po’ lo spettatore e a muoverlo su un terreno conosciuto, ci pensa il nuovo «eroe» Cade Yeager (Mark Wahlberg), subentrato senza tante spiegazioni all'«originale» Sam Witwicky (il cui interprete Shia LaBoeuf forse punta a ruoli più adulti, come dimostra il suo coinvolgimento in Nymphomaniac di Lars von Trier).
Questo Yeager è una specie di inventore-robivecchi, che trova la motrice di un camion fuori uso in un vecchio cinema abbandonato (dove la regia non resiste alla tentazione di fare qualche facile battuta sul tempo passato e le tecnologie di proiezione finite in disuso). Ci vorrà poco a capire che quella motrice è Optimus Prime in attesa di tornare in vita, che l'agente Attinger ha un interesse a catturarlo che va al di là del proprio dovere e che Yeager ha una figlia, Tessa (Nicola Peltz), meno ingenua di qual che crede, visto che ha anche un fidanzato (Shane Dyson), pilota abilissimo, che lo aiuterà a cavarsi d'impaccio in più di un'occasione.
A questo punto siamo solo all'inizio della storia - deve ancora entrare in scena l'industriale Joshua Joyce affidato al sempre divertente Stanley Tucci - ma può già bastare per capire il meccanismo con cui il regista Michael Bay e il suo fidato sceneggiatore Ehren Kruger (autore anche dei due episodi precedenti) hanno costruito il film: convinti, probabilmente giustamente, che lo scontro tra Transformers buoni e cattivi abbia poco da dire, hanno spostato il cuore del racconto tra gli umani (militari «deviati» come Attinger e scienziati «sognatori» come Joyce, entrambi convinti che dalla materia dei Transformers distrutti si possa trarre il segreto per costruirne di nuovi assoggettati all'uomo) per poi però «espandere» lo scenario fino all'infinito (e oltre) con l'ingresso in campo di un «nuovo» Transformer - quello che sembra alleato di Attinger - per stemperare su tutto e tutti la minaccia dei suoi misteriosi e a quanto pare bellicosi superiori.
Quel che ne risulta però finisce per sfuggire alle forze di regista e sceneggiatore che si rifugiano nella farsa e nella tecnologia: da una parte una serie di situazioni da commedia che sfruttano le situazioni più scontate (la suscettibilità del redivivo autobot BumbleBee, la gelosia di un padre per una figlia che indossa hot pants da infarto, l'ingenuità dello scienziato idealista); dall'altra, lo sfoggio dei traguardi cui è arrivato il digitale, con i Transformers (buoni, cattivi, di ultima generazione, arrivati dallo spazio profondo) che si combattono distruggendo palazzi, sollevando navi e automobili o trasformandosi in redivivi dinosauri (ma nell'ultimo quarto d'ora: i più piccoli sono avvisati).
Una gag e uno scontro digitale, un duello e una battuta, ripetuti all'infinito, senza alcuna evoluzione sé non la varietà degli scenari - si passa da Chicago al Polo a Hong Kong - e con un'irritante ironia di fondo verso i piani alti della politica, messi in ridicolo senza una vera ragione. Oltre a un'invadente presenza di marchi e oggetti pubblicitari che bombardano lo spettatore quasi a ogni scena. E a qualche perla di saggezza che punteggia i dialoghi, come la riflessione sulla fallibilità dell'uomo che Yeager fa a Optimus Prime: una volta quella sarebbe stata la morale «nascosta» che ogni spettatore doveva essere capace di trarre dal film, oggi è diventata il pistolotto moralista messo in primo piano per far credere a chi sta in sala che non sta vedendo solo un semplice film d'evasione.
E proprio quest'ultima differenza potrebbe offrire lo spunto per capire la «falsa coscienza» dei nuovi titani della riproducibilità hollywoodiana, incapaci di creare qualche cosa di davvero nuovo ma abilissimi nell'infiocchettare le scelte di marketing con un profluvio di citazioni e una grande dose di pseudo-ironia (e vero cinismo), magari convinti di essere i paladini del nuovo che avanza mentre invece sono solo le prefiche di un doloroso funerale collettivo dell'intelligenza. Ma è un discorso che ci porterebbe troppo lontano e che rischiamo di ripetere uguale quasi a ogni megaproduzione a stelle e strisce.
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