Il supereroe Jackman e i mutanti: non bastano gli effetti speciali
di Paolo Mereghetti
La motivazione è semplicissima: una produzione con la fortuna di avere, nel cast di un film di successo, un attore diventato all'improvviso celeberrimo, potrebbe evitare di sfruttarlo?
Evidentemente no. E la Fox non si è certo fatta sfuggire l'occasione di utilizzare al meglio Hugh Jackman, super-macho palestrato e cotonato che le più recenti classifiche del glamour internazionale mettono ai primissimi posti di ogni graduatoria possibile. Aveva già fatto palpitare il cuore di Nicole Kidman nel melo-kolossal Australia, perché non sfruttare il suo fascino anche sul pubblico più giovane, quello che ha decretato il successo della serie X-Men?
E così, prendendosi qualche libertà sulle tavole disegnate della Marvel, il film sui mutanti malinconici dedica la sua quarta puntata proprio al personaggio incarnato da Jackman, quel Wolverine che quando si arrabbia sfodera tre lame taglienti per mano e arruffa i capelli come fosse la criniera di un leone, ipotecando tutto il titolo (X-Men le origini - Wolverine), ma senza fare a meno di una bella serie di altri mutanti vari.
Il film comincia a metà dell'Ottocento, in Canada, quando il piccolo e malaticcio John Howlett scopre nella stessa, traumatica sera alcune scottanti verità: primo, non è figlio di chi crede suo padre, ma di un ubriacone manesco che evidentemente deve avere avuto un certo fascino sulla madre borghese; secondo, quando si arrabbia gli spuntano tra le nocche delle mani tre artigli; più tre affilatissimi e letali (con cui uccide il contadino alcolizzato per vendicare l'assassinio del patrigno); terzo, la nuova paternità gli porta in dote anche un fratello, Dog, più manesco, ma anche più cinico di lui. I due crescono evidentemente insieme (lasciando un dubbio insoluto nello spettatore: perché l'aspetto di entrambi passa dalla giovinezza all'età adulta e poi, per cent'anni e più, resta sempre lo stesso, senza mai invecchiare?) e insieme combattono la guerra di secessione, la prima e la seconda Guerra mondiale e poi la guerra in Vietnam, aiutandosi fraternamente nelle battaglie, ma sviluppando attitudini opposte: John, che ha cambiato nome in Logan alias Wolverine (Hugh Jackman) sembra angosciato dalle sue potenzialità omicide; Dog diventato Vietor Creed (Liev Schreiber) sembra invece compiaciuto delle proprie pulsioni assassine.
Così, quando l'ambiguo colonnello Stryker (Danny Hudson) cerca di sfruttare i loro poteri per azioni non proprio irreprensibili, le strade dei due fratelli si dividono.
Che debbano velocemente tornare a incrociarsi, i fan della serie lo sanno benissimo.
A questo punto siamo più o meno a un terzo della storia, ma abbiamo già potuto sperimentare combattimenti sovrumani, esplosioni di ira distruttrice e angosce esistenziali a piene mani (compresi i palpiti del cuore per la bella Kayla, cioè Lynn Collins), perché la caratteristica della serie è proprio quella di attribuire ai vari mutanti non solo poteri sovrumani, ma soprattutto una specie di malinconica «coscienza di sé» che rende poco gratificante l'attività di questi tormentati super-eroi.
Quello che è presente in misura minore rispetto ai tre precedenti film della serie (X-Men, X-Men 2 e X-Men - Conflitto finale) è la lettura del mutante, come «diverso», con tutte le possibili conseguenze sociopolitiche e razziste. Stryker in questo film non vuole ancora sterminare l'intera razza di super-esseri ma solo appropriarsi dei loro poteri per creare una specie di mostro indistruttibile con cui mettere in atto qualcosa di simile alla futura dottrina Bush (il film è ambientato grosso modo verso la metà degli anni Ottanta): colpire il nemico prima che il nemico abbia la possibilità di colpire l'America.
Sono invece gli effetti digitali a farla da padrone, con una predilezione per le esplosioni con spostamento d'aria al seguito, perfette per agitare quel tanto che è indispensabile l'abbondante capigliatura di Jackman, che naturalmente ogni volta si salva e abbandona l'area con passo sicuro e chioma sventolante. Anche se viene da chiedersi quale possa essere l'effetto di un tale spiegamento di abilità pirotecniche e tecnologie computerizzate nell'immaginario di un pubblico che in questo modo non ha più nemmeno la libertà di palpitare un po’ per il proprio eroe, tanto l'effetto degli scontri e delle distruzioni è previsto e prevedibile.
Resterebbe da aggiungere qualche cosa sulla carriera commerciale, ma anche sull'involuzione artistica del regista, il sudafricano Gavin Hood, che dopo aver vinto l'Oscar per il miglior film straniero con Il suo nome è Tsotsi (battendo tra gli altri anche la nostra Cristina Comencini) e aver messo in campo qualche ambizione con il successivo Rendition, si è consegnato mani e piedi alla logica dei popcorn movie, dove regia e recitazione sono gli ultimi degli optional possibili.
Ma forse sarebbe ingeneroso puntare il dito solo su di lui: è tutta la macchina degli studios che andrebbe messa sotto accusa una volta per tutte.
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