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recensione di Alessandro Grieco a "Zelig"
Una delle più divertenti sperimentazioni sul linguaggio cinematografico di Woody Allen. Zelig racconta l'improbabile storia dell'uomo camaleonte, in grado cioè di prendere le sembianze fisiche e psicologiche di chi ha vicino, e dell'amore per la sua psicoanalista (Mia Farrow) sullo sfondo della Germania fascista. Il film confonde continuamente il piano della finzione e quello del documentario, creando un ibrido congegnato in modo tale da mettere a dura prova la credibilità dello spettatore e le regole del verosimile filmico. Il film inizia con titoli sobri e silenziosi che fanno pensare ad una cancellazione della narrazione forte a favore di un regime più documentaristico e oggettivo. Subito vengono presentati alcuni contributi di noti intellettuali americani (Susan Sontag, Saul Bellow) che fungono da testimonial per la veridicità della vicenda. In seguito, filmati d'epoca restituiscono le atmosfere dell'America anni trenta così come lo spettatore se la immagina (arredamenti, musica jazz, automobili d'epoca). Poi il film ci mostra alcuni espliciti indici di realtà apparentemente inconfutabili: un trafiletto su un quotidiano, fotografie, una testimonianza diretta di un cameriere. A questo punto lo spettatore è assolutamente convinto della verità sull'esistenza del personaggio e sulla buona fede del film come inchiesta obiettiva. Allen ha messo in moto la sua macchina, e non appena entra in scena Zelig (interpretato dallo stesso regista) comincia un irresistibile gioco surreale e una profonda riflessione sullo statuto di finzione del cinema. Zelig è ricco poi di altre piacevolezze e intelligenti provocazioni, come la dialettica tra paura dell'omologazione e quella di non essere accettati, oppure la satira politica sul fascismo, ma soprattutto è intriso di quella comicità indimenticabile che ha fatto conquistare a Woody Allen un posto speciale nel cuore degli amanti del buon cinema.
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