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Da una vita all'altra: la magia di un mondo non solo reale


di Paolo Mereghetti


È piaciuto a Tim Burton, che come presidente della giuria all'ultimo festival di Cannes gli ha fatto attribuire la Palma d'oro per il suo fascino magico e antirealistico, capace di mescolare quotidianità e fantasia, sogni e concretezze. Ma sarebbe piaciuto anche a Pasolini, per il richiamo a un mondo e a una cultura che stanno scomparendo e che il film racconta con amore e passione coinvolgenti e coraggiose. Per questo è fuori luogo ogni tipo di ironia sul titolo (Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti) e soprattutto sul nome del regista - Apichatpong Weerasethakul - perché tra gli autori su cui scommettere per il futuro al cinema, lui è in primissima fila.

Ambientato nel nordest thailandese, costruito intorno al tema del legame strettissimo che unisce essere umani, animali e natura e sorretto da un'idea di spiritualità capace di passare da una vita all'altra e da un essere all'altro, il film segue gli ultimi giorni di vita dell'agricoltore e apicoltore Boonmee (Thanapat Saisaymar), affetto da una grave forma di insufficienza renale, ma lo fa senza nessuna cupezza o peggio morbosità, piuttosto con la consapevolezza che la fine di una vita è solo l'inizio del passaggio verso un'altra. E la cosa straordinaria e affascinante è che questo percorso Weerasethakul non lo spiega attraverso le parole ma grazie alle immagini, coinvolgendo lo spettatore in un'esperienza che è per prima cosa emotiva e solo dopo intellettuale o filosofica. Il film non spiega, non argomenta: mostra, chiedendo allo spettatore la fiducia di seguirlo lungo il percorso indicato dalle immagini.

Così, che il passato sia qualche cosa che continua a riguardare chi è sopravvissuto e che la morte abbia conseguenze sui corpi ma non sugli spiriti, il film ce lo racconta nella scena in cui, alla cena che riunisce Boonmee sua cognata Jen e il nipote Tong, si materializza all'improvviso anche la moglie morta del protagonista, Huay, e inizia a dialogare sia col vedovo che con la sorella. Allo stesso modo, il fatto che la vita umana possa trasmigrare verso altri tipi di vita, il film lo affida al personaggio del figlio di Boonmee, sparito anni addietro e anche lui «chiamato» dalla prossima morte del padre a presentarsi a quella cena: lo fa sotto le spoglie di uno strano uomo-scimmia con gli occhi fluorescenti, passato dal mondo degli uomini a quello degli animali per amore di una ragazza che ha seguito nella foresta.

Non ci sono sottolineature musicali, trucchetti di montaggio, sospensioni della credibilità: le inquadrature semplici e piane di Weerasethakul offrono lo stesso senso dì realtà alle immagini della foresta al tramonto dove bisogna andare a recuperare il bufalo, alla descrizione delle pratiche mediche cui Boonmee deve sottoporsi per la sua malattia e all'apparizione dei parenti defunti o spariti. Tutto ha lo stesso valore e la stessa concretezza, la stessa importanza e credibilità.

Per questo, a un certo punto il film può introdurre la storia della principessa e del suo amore con un soldato che solo «trasformandosi» in un pesce gatto può finalmente concretizzarsi; oppure portare i suoi protagonisti - fantasma della moglie in testa - verso una caverna-utero, che per Boonmee era il luogo di nascita di «una vita che non ricordo» e che diventa il posto dove abbandonare la vita chi sta vivendo.

Sfuggente e concretissimo insieme, il film invita lo spettatore a perdersi nel fascino e nel mistero delle immagini (come spesso succede nei suoi film, la natura e soprattutto la foresta di notte sono filmate con una sapienza e una bellezza inquietante) per farsi guidare dentro un mondo dove spariscono le differenze tra ragione e fantasia, esseri umani e esseri fantastici, presente e passato (e futuro) e si riscopre il fascino di un cinema ipnotico e magico. Dove comunque non manca il coraggio di denunciare l'involuzione autoritaria delle Thailandia (le foto fisse, cioè «senza vita», dei soldati che riempiono lo schermo quando Boonmee dice di aver visto il futuro) o la perdita di ogni tradizione culturale e spirituale in quel finale senza speranza, dove la cognata e il nipote scontento della sua esperienza come bonzo possono scegliere solo tra restare imbambolati davanti alla televisione o farsi assordare da un karaoke senza anima né interesse. Ultimo, disperato ritratto di un mondo che ha dimenticato le sue radici e non sembra neppure rendersene conto.






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