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Magie nell'ultimo Hobbit tra Shackespeare e tecnologia


di Paolo Mereghetti


Finito! Dopo 1.032 minuti di proiezione (e non considero le extended version), la saga tolkeniana chiude i battenti con l'ultima parte dedicata allo Hobbit, il volume con cui l'autore inglese aveva sfruttato il successo del Signore degli anelli immaginandosi un prologo e che il regista Peter Jackson ha diluito e «integrato» per trarne altri tre film, forte degli oltre tre miliardi di dollari incassati con la trilogia dedicata a Frodo e alla sua odissea. Adesso sappiamo (più o meno) tutto sull'origine del celebre anello dai magici poteri, sulle rivalità tra nani ed elfi, sul potere corruttivo dell'oro, sul drago Smaug e persino sull'amore che può infrangere leggi considerate eterne (mai amori interrazziali tra nani e elfi, e invece ... ). Ma soprattutto possiamo cercare di esprimere un giudizio più meditato su un universo immaginario che ha avuto l'ambizione di «colonizzare» la fantasia degli spettatori, come già Star Wars o Harry Potter.

Lo Hobbit - La battaglia delle cinque armate (curiosamente il più corto di tutti i film della saga: «solo» 144 minuti) inizia esattamente dove ci aveva lasciato il precedente La desolazione di Smaug: col drago sputafuoco che, risvegliato dal suo torpore, decide di vendicarsi incendiando la Città del lago.

Per fortuna Bard (Luke Evans) ha in serbo la freccia nera che sa forare la sua corazza. Ma la morte di Smaug offre anche ai tredici nani capeggiati da Thorin Scudodiquercia (Richard Armitage), coi quali c'è anche lo hobbit Bilbo (Martin Freeman) la possibilità di impossessarsi di tutto l’oro che il drago custodiva nella fortezza di Erebor, ricchezze che Thorin aveva promesso di dividere sia con gli elfi di re Thranduil (Lee Pace) sia con gli umani della Città del lago e che invece ora vuole tenere solo per sé. Scatenando la loro reazione. Ma le tre “armate” in guerra per l'oro (elfi, umani e nani) dovranno ben presto coalizzarsi per combattere quella degli orchi, che per numero e ferocia sembra davvero invincibile. Almeno fino a quando non scenderà in campo l'ultima armata, quella delle aquile.

Ridotto così ai minimi termini, la storia lascia immaginare l'esplosione di effetti speciali messi in campo da Jackson per raccontare prima lo scontro col drago e poi la battaglia finale delle cinque armate (con una lunga appendice di duelli individuali tra orchi, nani ed elfi) ma non la lunga parentesi «shakespeariana» dove l'avidità trasforma Thorin in una specie di incrocio tra Macbeth e Shylock. Sono le scene più originali del film perché interrompono il flusso fantastico avventuroso del racconto e fanno di Thorin un personaggio tragico, talmente ossessionato dalla sua missione (recuperare le ricchezze del vecchio regno di Thrór) che dimentica amicizie, onore e dignità.

Sono anche le scene che sembrano rivolgersi a un pubblico più adulto, quelle più lontane dalle forzature comiche che stonavano in Un viaggio inaspettato (il primo film della trilogia dello Hobbìt) e che qui sono affidate al solo personaggio del viscido Alfrid (Ryan Gage), usato come puro intermezzo di alleggerimento e che non a caso a un certo momento scompare nel nulla.

Ci vorrà del tempo per valutare l'impatto (scommetto notevole) che questi film hanno avuto sull'evoluzione delle tecniche digitali. Mi sembra però che a livello di mitologia cinematografica Jackson non sia riuscito a toccare i vertici di Star Wars. Ha illustrato con abilità e in certi casi con maestria il mondo di Tolkien, «sdoganandolo» da una lettura politica che lo soffocava, ma ha fatto opera originale solo a tratti, spesso per forza recitativa (penso al Gandalf di McKelln, all'Aragorn di Mortensen e al Gollum di Serkìs) o per maestria digitale (sempre il Gollum ma anche il drago Smaug). Altre volte fermandosi solo a un buon livello di illustrazione.






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