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Il viaggio dei giocattoli-eroi ora si avvicina al capolavoro
di Paolo Mereghetti
Se c'è un genere che dà l'impressione non soffrire la crisi generalizzata - di idee e di risultati - che sembra aver attanagliato Hollywood (nonostante l'exploit di Avatar i primi sei mesi del 2010 non promettono molto di buono oltreatlantico e la stagione estiva, solitamente ricca di successi, si sta rivelando un sonoro flop: 11 per cento in meno di ricavi, 20 per cento in meno di pubblico. Finora), se ci sono dei film che dimostrano come creatività e fantasia possono essere ancora di casa al cinema, nonostante la marea di remake e riadattamenti che invade gli schermi, quelli sono i film d'animazione. Digitali, tradizionali o 3D non fa molta differenza, perché non è la tecnica che conta ma piuttosto la carica creativa, la forza delle invenzioni, il piacere del raccontare. Ed è proprio la grande tradizione degli sceneggiatori che hanno fatto grande il cinema americano che sembra finalmente rinascere grazie alla libertà ma anche al coraggio dei produttori e dei registi di «cartoon», gli unici si direbbe che non si fanno problemi ad infrangere tutte le regole di qualsiasi vademecum-del-successo per scatenare la fantasia. La propria e soprattutto quella dello spettatore.
Chi avrebbe il coraggio di iniziare un film senza che si pronuncia una sola battuta per mezz'ora? L'ha fatto Wall·E e nessuno se n'è lamentato. Chi poteva avere il coraggio di far morire dopo dieci minuti uno dei due coprotagonisti del film? Succede in Up, ed è stato quel successo planetario che tutti conoscono. Nessun produttore sensato avrebbe accettato sceneggiature così fuori dagli schemi (un robot fuori uso che abita una Terra abbandonata da tutti; un vecchio iroso e scorbutico che vuole comportarsi come un ragazzino). Per fortuna che alla Pixar non la pensano così, altrimenti avremmo avuto qualche capolavoro e qualche ora di piacevole divertimento in meno. L'ultima conferma viene da questo Toy Story 3 - La grande fuga che se non è un capolavoro poco ci manca e che riprende i personaggi del film di Lasseter di quindici anni fa (e del sequel del '99: Woody & Buzz alla riscossa) per aggiornarne le avventure senza tradirne lo spirito. Ma soprattutto senza dare assolutamente l'impressione di riciclare in qualche modo vecchie idee o spunti abusati. Lo si capisce subito dal rispetto per lo scorrere del tempo. Se lo sceriffo, l'astronauta, l'occhiuta patata e C. sono immutabili, lo stesso non si può dire di Andy, il loro padroncino, che infatti è cresciuto e sta per partire per il college: che ne sarà dei suoi cari giocattoli? Messi in soffitta? Regalati? O peggio: gettati nel bidone delle immondizie? Parte da qui la terza avventura, affidata alla regia di Lee Unrick (già co-responsabile di Toy Story 2 e Alla ricerca di Nemo) e scritta da Michael Arndt (premio Oscar per la sceneggiatura di Little Miss Sunshine ma in forza alla Pixar già dal 2005: a riconferma che da lì vengono le vere forze nuove per il cinema e non viceversa): un viaggio avventuroso tra la stanza di Andy, la scuola materna Sunnyside, la casa della piccola Bonnie e una minacciosa discarica-inceneritore dove l'avventura dei «nostri eroi» sembra destinata finire. In mezzo, un fuoco d'artificio di trovate e di colpi di scena che passano dalla commedia al dramma fino al melodramma, capaci di bruciare in pochi sequenze materiali per almeno un'altra dozzina di film. C'è il senso di responsabilità che anima Woody e che lo spinge a lasciare un futuro sicuro (lui solo viene messo nello scatolone che accompagnerà Andy al college) per seguire il destino dei suoi amici; c'è l'inaspettata dittatura dei giocattoli che comandano al Sunnyside, guidati dal pacioso ma vendicativo Lotso Grandi Abbracci (sarebbe L'orso Grandi Abbracci, ma la pronuncia infantile della sua prima padroncina l'ha marchiato per sempre); c'è la parentesi «sentimentale» tra la Barbie della sorellina di Andy (anche lei destinata ai rifiuti) e il Ken che vive all'asilo (che ha scatenato un'inutile e gratuita alzata di scudi da parte di alcune sedicenti femministe americane); c'è la rocambolesca fuga notturna dal Sunnyside e l'agghiacciante esperienza del forno di smaltimento dei rifiuti; c'è la scoperta che lo spirito di gruppo può essere più importante della libertà; c'è la speranza che se un bambino cresce ce ne possa essere un altro disposto a riutilizzare i suoi «vecchi» giocattoli... C'è insomma la capacità di passare da un cinema d'invenzione a uno di emozione a un altro ancora di riflessione senza perdere mai di vista il piacere dell'avventura e della sorpresa (e del gusto della parodia, come nell'introduzione in puro stile blockbuster o nei divertenti rimandi alla Grande fuga di Sturges). In nome di un cinema che non vuole mai abdicare all'intelligenza e alla fantasia, forse perché si rivolge al pubblico più esigente e sofistico che esista: quello dei bambini.
La scena-clou. La fuga dalla «prigione» del Sunnyside è compiuta ma l'esito non è stato quello desiderato: invece che a casa di Andy, il gruppo di giocattoli guidato da Woody si è ritrovato nel pericolosissimo inceneritore della discarica comunale. Il tritarifiuti è evitato grazie alle provvidenziali calamite appese al soffitto, ma quella che sembra la luce alla fine di un insidioso nastro trasportatore è in realtà il bagliore del forno dove tutto viene bruciato. Nessun appiglio a cui aggrapparsi, nessuna via di fuga: ai nostri amici non resta che abbracciarsi per affrontare tutti insieme la loro fine. Ma nelle favole può esistere un finale così tragico?
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