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Argento ad alta tensione


di Alessandra Mammì


Giallo. Puro giallo dai timbri acuti, elettrici, metallici. Nel "Cartaio" quasi non c'è rosso, non ci sono affreschi di sangue sulle pareri, schizzi, macchie, visioni purpuree che fanno di Dario Argento uno dei migliori pittori del cinema italiano.

Qui il maestro esibisce il suo animo più classico e geometrico, ma non per questo meno terribile. Alta tensione. Elettrica, anzi, elettronica e tecnologica. Il serial killer è un giocatore, si nasconde nella rete, sfida al video poker la polizia e la posta in gioco ogni volta è una vita umana. Quella di una giovane donna con una webcam puntata sul volto che riprende, senza risparmi, il terrore dell'agonia.

L'assassino è ovunque, «non se ne sta più acquattato ad aspettare la prossima vittima in una angolo buio o nella rete fognaria di una metropoli. È nella Rete che avvolge le nostre vite e l'intero pianeta». Così nelle mani di Dario Argento la tecnologia diventa strumento del Male, mostro dell'inconscio, creatura dell'occulto. Ma è un Male nuovo, meno espressionista e barocco, bagnato dalla luce fredda dello schermo di un computer; immerso nella musica elettronica, punteggiato dai blu e verdi ghiaccio dei display dei telefonini.

Dove i meccanismi rispondono agli schemi dei thriller più classici e i buoni son più malinconici che tormentati. Anna (Stefania Rocca) donna poliziotto, per esempio.

Ha lo stesso nome e fa lo stesso mestiere di Asia nella "Sindrome di Stendhal", ma non si nutre di incubi e visioni, non è dominata dai suoi demoni. Soffre per antichi traumi e nuovi amori, ma soprattutto è un detective che conosce bene il suo mestiere, sa mettere mano alla pistola, obbedisce al suo intuito, trova piste e sentieri dove altri si perdono.

E veri, concreti sono anche gli altri personaggi: il giovane Silvio Muccino, ragazzotto romano mago dei videogiochi; il detective irlandese (Liam Cunnigham) burbero e militare; quello italiano, poliziotto della porta accanto innamorato della collega (Claudio Santamaria); il questore vecchio stampo tutto sani principi (Adalberto Maria Merli). Tutti ostaggi di un serial killer virtuale e di una situazione a loro sconosciuta, vittime di una tecnologia tentacolare, tenebrosa e più potente di loro. Un nuovo incubo, un nuovo diavolo, un nuovo Dario Argento.

Computer, chat, cellulari e la morte che corre sul Web. Dario Argento, maestro indiscusso di un horror a tinte forti, ci regala un thriller a luci fredde. Da dove è nato questo film?

"Osservo la gente. Guardo le persone che camminano per strada impugnando il telefonino spento, aggrappate ai cellulari. Ma la visione è arrivata un pomeriggio, in un cinema romano. Proiettavano il "Signore degli Anelli 2", la sala era piena di ragazzi, c'era posto solo in galleria. Spente le luci, parte la proiezione e in platea cominciano ad accendersi decine di schermetti verdi e blu, una continua intermittenza, tutta la sala lampeggiava. Quei pischelli si mandavano i messaggini. Ho cominciato a ragionare sul "Cartaio" da quel momento. Ma non è stato facile tenere la tensione con tre quarti del film davanti a un computer".

Ci è riuscito, però ...

"Alcuni dicono che "Il carraio" è tra i miei film migliori. Per me è un figlio anomalo, non solo perché c'è tanta tecnologia, ma perché si affida alla tecnologia. Ho usato una pellicola nuova, sensibilissima, la 500V della Kodak che mi ha permesso di non usare luci artificiali sul set. Ho girato con la luce naturale, solare o elettrica, senza illuminazione aggiunta. I volti degli attori hanno rughe, occhiaie, ombre. Tutto vero, come dai principi di Dogma, la scuola di Lars Von Trier. Ho seguito le orme dei registi danesi, li ho cercati, ho parlato con Lone Scherfig, ho voluto un direttore della fotografia capace di gestire l'esperimento, Benoît Debie».

Il visionario Dario Argento affascinato dal minimalismo di Dogma e Lars Von Trier?

«Non c'è solo Lars Von Trier, c'è un'intera scuola che sta facendo una ricerca interessante. Il cinema è ricerca, soprattutto il cinema di genere».

Lei è tra i pochi italiani che riesce a fare ancora cinema di genere.

«Il film di genere era una nostra bandiera ma è stato ucciso dalla tv. In Italia oggi si fa solo un cinema per la tv, cinema per famiglie, un po’ cretino e anestetizzato con attori graditi al pubblico televisivo. E allora tutti a correre dietro a Castellitto altrimenti non si chiudono i conti, e a far film che non corrono rischi di censure e vanno bene in prima serata. In America almeno il cinema è ancora cinema. Si è capaci di produrre un film aggressivo e sprezzante come "Kill Bill"».

Tarantino non nasconde i suoi debiti verso i registi italiani.

"Vorrei vedere che lo facesse! Ci deve tutto, in "Kill Bill" ci sono quattro mie inquadrature prese pari pari. Non è un copiare, è un citare. Tarantino è un vero manierista. Ma se fosse nato in Italia avrebbe sì e no fatto un filmetto ogni cinque o sei anni, faticando come un matto per trovare i soldi. Lo sa che ai funerali di Mario Bava, un grande regista che in America è un mito, c'erano 20 persone e non parliamo di Lucio Fulci, un altro grande».

Parliamone invece, ora è considerato un maestro dell'horror.

«Ora che è morto. Ma gli ultimi suoi anni viveva malato e povero in un seminterrato a Bracciano. Io con lui non avevo mai avuto un rapporto facile. Fulci era scostante, burbero, crudele di una crudeltà che era la sua forza. E poi non mi amava. Lo incontro a un festival ridotto sulla sedia a rotelle. Sento che devo aiutarlo, e un regista si aiuta producendogli un film. Ho fatto il diavolo a quattro, ho costretto il Ministero a tirar fuori i soldi e gli amici registi a fare come si fa in America, una colletta per curarlo. Il film era pronto, il budget chiuso, lui stava meglio, riusciva a camminare con le stampelle e avevamo trovato un piccolo appartamento a Roma sopra una multisala, cosi poteva andare al cinema tutti i giorni. Purtroppo poco prima delle riprese è morto all'improvviso. Il film, "La maschera di cera" lo ha girato Sergio Stivaletti».

Ma se il genere è morto, da dove arriva l'interesse di giovani autori per il thriller o la candidatura all'Oscar di "lo non ho paura" di Salvatores?

«Dalla letteratura più che dal cinema. C'è una rinascita che affonda le radici nella nuove scuole di scrittura: da quella bolognese a quella milanese, da autori come Ammanniti, Vinci, Lucarelli. È già successo in Spagna: la letteratura riscopre il genere e poi arriva il cinema».

Torniamo al "Cartaio". Da una parte la tecnologia dall'altra una Roma notturna, inedita, vera protagonista del film.

"Ho imparato da Antonioni a trattare la città, gli edifici, le architetture come protagonisti del film. Anche se i miei sono più espressionisti, sono organismi viventi. Ma questa è una prova generale per il prossimo film, lì c'è davvero un'altra Roma».

Ancora un tecno-thriller?

«No. Finalmente chiudo la trilogia iniziata con "Suspiria" e "Inferno". Dopo la "mater suspirorium" e "mater tenebrarum" ecco la più crudele "mater lacrimarum". Un mito ricostruito da testi esoterici e gnostici.

Lo sto scrivendo nella Biblioteca Angelica, una miniera per l'esoterismo. Tutti i giorni, chiuso ore lì dentro».

Lavora sempre così?

"Per il "Carraio" ho lavorato accanto a un famoso criminologo, Vincenzo Mastronardi, studioso della psicologia dei serial killer.

Perché questa figura ha rivoluzionato la struttura del giallo, ha creato l'assassino puro senza movente, senza emozioni come gelosia, vendetta, avidità. Non si uccide né per amore né per denaro. La logica è inafferrabile e mai la stessa. Ogni serial killer si incasella in una tipologia. Ne esistono centinaia di specie e sotto specie. Gli americani hanno scritto volumi per cercare di categorizzarli».

Il suo serial killer è diverso di quelli made in Usa?

«I serial killer sono sempre gli stessi, il metodo di lavoro cambia. A differenza di noi, gli americano credono nel genere, ma non negli autori e lo soffocano col marketing. Fanno i film per fare i soldi e si vede. Da un libro bellissimo come "'Il collezionista d'ossa" hanno tratto un film dignitoso ma mediocre, schematico, baraccone».

A quale tipologia di serial killer si iscrive il suo "cartaio"?

«È uno spirito ludico, terribile proprio perché grottesco. Un assassino che non si manifesta all'improvviso, ma procede per gradi sui confini del rischio. Forse da giovane ha giocato alla roulette russa, partecipato a corse d'auto illegali, praticato sport estremi. La morte per lui si sposa col gioco. Forse, tra i serial killer è il più contemporaneo».

È così terribile la contemporaneità?

«Questo è un giallo che come ogni film di genere sa raccontare il mondo contemporaneo senza parlare di crisi dei valori o istituzioni in frantumi. È un film su una cosa che non conosce mai crisi: il Male».






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