Recensione di Franco Lato a "L'equazione del giorno del giudizio"
R.A. Lafferty è un autore che, pur non essendo estremamente popolare, gode negli USA della fedeltà appassionata di una cerchia di iniziati nel pubblico della fantascienza. Ma anche in Italia vanta i suoi estimatori, malgrado l'attuale chiusura del mercato a tutto ciò che non è standardizzato sul modello cine-video che imperversa.
Questa Equazione è un buon banco di prova per chi voglia cimentarsi nell'esplorazione della cosmologia laffertiana per passare magari dopo a cose più impegnative del Nostro. Di Lafferty si è detto tutto: s'è parlato della sua ermeticità, della sua cultura vastissima che si riflette quasi incidentalmente nelle sue opere, del suo gusto per l'araldica, per i generi desueti ma ricchi di tradizioni della quest e del masque, della concezione fondamentalmente mitico-religiosa che è alla base dei suoi scritti.
Il romanzo in questione è più leggero rispetto a opere memorabili quali Quarta fase o Il Diavolo è morto, ma non si può parlare di opera minore, perché ogni spunto è debitamente sviluppato (naturalmente al modo dell’Autore) e le qualità salienti di Lafferty ci sono tutte. La trama è un pò strampalata, ma è chiaro che a Lafferty non interessano affatto le unità aristoteliche: il suo ideale rimane quello del menestrello, del cantastorie (ovviamente cieco) che peraltro pure compare nel romanzo, come già in altri lavori.
Dai capovolgimenti di scrittura e dai paradossi, emerge un discorso estremamente serio su ciò che sono la letteratura e la tradizione. Senza timore di esagerare possiamo dire che, sempre conservando la massima libertà e alinearità d'impostazione, sono toccati tutti i modi e gli archetipi della letteratura occidentale: c'è la figura canonica dell'aedo (o del bardo, irlandesemente parlando) che "rivendica" la sua funzione visionaria, e ciò sia quando è invasato dal dio ("enthusiasmòs”) sia quando non lo è (e in questo caso rimedia con il mestiere); c'è il tema del simposio, del convivio, espressione d'una cultura che va da Platone a Dante all'Umanesimo, fatta, letteralmente, a tavola banchettando e dialogando; esse rappresentano "rispettivamente l'aspetto sociale ed educativo d'una cultura di élite" (N. Frye), e che comunque Lafferty non manca di prendere in giro; c'è il tema dell’“altro" tanto caro alla letteratura gotica e fantastica in genere, dallo Hoffmann de Gli elisir del Diavolo sino a certe cose di autori di fantascienza (ad esempio, Riva d'Asia di Disch). Tutto questo è fuso da Lafferty col suo stile privo del rispetto - consacrato dall'industria culturale - per regole prestabilite in cui il lettore si trova avvolto, grazie al bombardamento quotidiano semantico ed, ahimé, ideologico. Leggere Lafferty è un'esplorazione senza bussola, ma chi crede ancora che la fantascienza sia la letteratura di idee qui ne troverà in abbondanza.
Detto tutto ciò resta la trama, che peraltro non è importante ai fini dell'interpretazione tematica. Non è importante, addirittura, nello stesso romanzo, dove poco conta (ai fini della narrazione) che l'intero Universo venga salvato o meno. Questo per dare un'idea del coraggio (letterario) di Lafferty nel raccontarci le sue cosmiche bugie in stile bardico-celtico.
Tuttavia, da ogni bardo che si rispetti, Lafferty dà importanza all'intreccio: i capovolgimenti sono a ogni pagina e non ci si deve stupire se nel libro compaiono, allo stesso livello di materialità, esseri vivi ed altri che son morti da tempo, e ciò nel rispetto di quella tradizione mitica che solo col positivismo vedrà gli spettri (se non eliminati) confinati in un genere a parte: la "ghost story", appunto.
Lafferty può risultare insopportabile a chi sia avvezzo a porre tutto in un quadro di razionalismo. È addirittura indispensabile a chi prova ancora l'ansia mozzafiato ed il fascino trascendente delle avventure interiori.
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