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E i mostri? Sono tutti in platea


di Giovanni Grazzini


Quante ci siamo sentiti dire che dentro di noi sonnecchiano mostri in attesa dell’occasione propizia per zompare su e restituirci al regno delle belve? Volte infinite, a confronto di quanti cercano di persuaderci che per vincerli, e garantire l'ordine sociale, basta tener desta la ragione. La novità di Demoni, film dell’orrore, vorrebbe essere, con ironico autolesionismo, nell'ammettere che appunto il cinema dell'orrore può scatenare forze distruttive appisolate nel nostro inconscio, sicchè è meglio starne alla larga.

È infatti in una sala cinematografica che l’abominevole finzione si fa terrificante realtà, e gli spettatori si trasformano in mostri nel rispetto dell’iconografia hollywoodiana che prevede il deformarsi delle umane fattezze e il balzo sui malcapitati. Tutta colpa del film in cartellone, su certi ragazzi temerari che vanno a scoperchiare la tomba di Nostradamus (ci trovano un libro e una maschera magica), ma anche del pubblico che vi assiste, formato di giovani e anziani i quali per un motivo p per l'altro hanno qualcosa da farsi perdonare.

Succede, alle corte, che le vicende del film abbiano una replica in platea, e che come Nostradamus, col solito ottimismo, aveva premonizzato, la metamorfosi degli spettatori in demoni avvenga alle spicce: con mani che diventano artigli, occhi di brace, denti mutati in zanne, e vomiti verdi al pistacchio. Trasmesso da una negretta (e non sarà un caso vista la morale reazionaria del film), il contagio provoca un’ecatombe per la nota ragione che ogni mostro vuole la sua macelleria, e scene da supporre angosciose si hanno quando i sani, prima di essere strozzati dilaniati scuoiati sbudellati e darsi anch’essi a opere di male, restano chiusi al cinema con l'aggiunta di un gruppetto di drogati ai quali la polizia da la caccia. A nulla vale l’asserragliarsi in galleria e alzare barricate: i varchi finiscono in vicoli ciechi e Satana gongola.

Ma per i buoni una speranza di salvezza forse c'è. È quando nella città ormai preda dei demoni una giovane coppia superstite incontra un'intrepida famigliola, vaccinata contro il male dall'amore che lega padre, madre e figli, e armata di tutto punto come Reagan consiglia. Poiché siamo a Berlino ovest, è bene si sappia che la loro speranza è tutta riposta nelle luci provenienti dall'occidente ...

Abbia o no il regista Lamberto Bava preso lo spunto anche dall'ultimo Woody Allen per rovesciarne perfidamente il senso, e si raccolgano o meno le strizzate d'occhio ai "cinephiles", il seme sparso all’inizio da frutti avari. Mentre l’impianto, per così dire ideologico del film, tradisce il moralismo più conservatore da (la pista dei drogati, la metropoli corruttrice, il barattolo della Coca Cola usato per nascondere la polverina, la spada di San Giorgio, la parte che hanno nel racconto una motocicletta, un elicottero, un proiettore automatizzato, la famiglia-modello del finale, ecc.), la struttura narrativa contempla una ripetitività di situazioni che non producono un crescendo drammatico.

Siano quanti vogliono gli effetti speciali (il più simpatico è un mostro partorito dalla schiena d’una ragazza), lo spettatore raggiunge presto un grado di assefuazione al repellente che non è compensato dall’incubo claustrofobico. E allora trionfa il manierismo del raccapriccio, con schiamazzi in sala per esorcizzare la paura ma anche per soffocare lo sbadiglio.

Per misurare il cammino a ritroso fatto dal cinema fantastico italiano in questo filone basta confrontare I demoni di Lamberto Bava con Diabolik di suo padre Mario Bava, uscito nel ’68. Quanto c’era allora di sorriso a fior di labbra si è ora trasformato in oltranza visiva, con accompagnamento di musica rock ad uso d’una platea che si presume chieda scene sempre più scandalosamente orripilanti per reggere l’impatto col mondo feroce in cui le nuove generazioni sono chiamate a vivere.

Ne consegue un campione forse di qualche utilità per gli studiosi dell’immaginario collettivo ma a nostro gusto un cinema isterico e urlato imbrattato di sangue e di immondi liquami, un cinema in cui il fascino dell’eccesso si misura sull'infantilismo del suo pubblico, e dove il mestiere di Bava jr. (il produttore è Dario Argento) è al servizio del sensazionalismo più provinciale.

Tale da competere, se gradite, con quello americano dì serie B, ma che non ci lascia impressi nella memoria nemmeno i nomi degli attori.






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