Gli amori, le memorie
di Giovanni Grazzini
«Senta: le sue idee sono troppo chiare e precise. Ritorni un altro giorno, con più confusione in testa, con più estro».
Prendendo alla lettera il paradossale consiglio di Leo Longanesi, Alberto Bevilacqua si ripresenta come autore cinematografico con un film che all'ultima mostra di Venezia fu dai più bistrattato ma che a quanti gradirono il romanzo omonimo potrà interessare.
Da valere come autoritratto e autoterapia, è infatti il più sincero tra i suoi film: un lungo viaggio alla ricerca di se stesso, con tante soste nella memoria, per ritrovare, insieme alle radici, la voglia e la ragione di creare. Dove l'estro nasce appunto dalla confusione che spesso alberga in chi si confessa, e nei momenti felici produce immagini belle.
Convinto che si possa pagare qualsiasi scotto alla lealtà verso se stessi, Bevilacqua dà il proprio nome al protagonista del film e quello di sua moglie alla bimbetta che per prima lo turbò, si trasferisce pari pari nei panni di uno scrittore cineasta, ammette d'essere stato molto curioso delle donne, s'immerge nelle acque del suo Po, e si fascia di musica verdiana. L'alter ego si chiama Alberto Ferrari. Ebbe una moglie Maura dalla quale vive lontano, e un'amante Luisa che ora abita di fronte a lui nel grande cortile di una casa romana. L'uomo è di pessimo umore: non riesce a farsi finanziare il film che ha in testa, e progetta di tagliare la corda.
Lo trattiene il bisogno di scoprire a chi appartiene la voce femminile che lo perseguita al telefono. È di una donna in carne ed ossa o si tratta di un fantasma partorito dalla sua fantasia?
Mentre Alberto si tormenta nel dubbio, accadono cose strane, manovrate da colei che gli si è definita la "donna delle meraviglie". Maura e Luisa, superati gli antichi rancori, tornano amiche, a una porta si affaccia una mano misteriosa, Luisa caccia di casa senza apparenti perché il suo ultimo amante e i ragazzacci che ospitava, qualcuno falsifica la firma di Alberto per impedirgli di partire. Diviso fra la curiosità di sapere se la donna esista, il piacere di sentirsi ammantato di mistero, e il timore di essere pazzo, Alberto alterna il brivido dell'enigma al conforto dei ricordi. Si rivede ragazzo sul greto del fiume, ripensa ai pittoreschi personaggi che gli scaldarono la fantasia (un liutaio che nei boschi dirigeva musiche immaginarie, un omaccione che raccontava a veglia storie favolose, una compagna di scuola, un pescatore di storioni, il padre sovversivo ... ), e rammemora l'incanto dei paesaggi padani. Poi rivede Maura, che gli confessa d'amarlo ancora, visita vecchie amiche, torna a letto con Luisa e fa un viaggio nei luoghi dell'infanzia. Balla con la mamma che ha battezzato Madre Chimera, e guidato da una maga ottiene, a Sabbioneta, la soluzione del mistero.
La «donna delle meraviglie» è colei che lo ha guidato nei labirinti della memoria e del rimorso perché reinventasse se stesso e i ricordi non fossero un compiacimento del crepuscolo ma una forza viva, la molla del rinnovarsi. Sciolto l'enigma, è lei stessa a presentare ad Alberto, come fossero attori di una recita, i personaggi della sua vita. Il Po minaccia di straripare, ma c'è forse un ultimo miracolo: passa un barcone con una croce luminosa, e la stessa romanza della Traviata che aveva aperto il film lo chiude in un fremito impalpabile.
La maggior parte della critica, a Venezia, fu ingenerosa verso Bevilacqua, o diciamo che, onnubilata dal nome di un autore il quale a torto o a ragione provoca spesso attacchi isterici, non seppe scernere il grano dal loglio. In realtà La donna delle meraviglie è il film della maturità artistica di Bevilacqua. Nel male e nel bene. Per prima cosa se ne deduce che la sua fantasia è in pieno rigoglio, e in un momento di stasi creativa tutti dovrebbero rallegrarsene. Subito dopo si avverte che è tanto florida da tracimare. Noi stessi lo dicemmo da Venezia: questo non è un film, è un pozzo di san Patrizio. In cui Bevilacqua ha calato i motivi più eterogenei, d'ordine psicologico, lirico, psicanalitico, politico, sociale che gli si affollano dentro e in ciascuno dei quali egli riconosce uno spicchio delle proprie ossessioni. È certamente un film diverso da quelli che si fanno oggi in Italia, ma che chiedeva maggiore disciplina, una struttura meno frastagliata, in modo da rendere più convincenti le motivazioni dei comportamenti, meno concitato l'intarsio.
Per altro verso però il film è un'opera di stregoneria che può prendere al laccio lo spettatore (anche per la buona prova dei suoi interpreti Ben Gazzara, Lina Sastri, Claudia Cardinale) e non dargli requie sino alla fine. Introducendo gli elementi del «giallo» in una tessitura colma di echi felliniani, Bevilacqua si conferma un abile giocatore di immagini.
Lo aiutano la splendida fotografia di Giuseppe Ruzzolini e le sapienti scenografie di Mario Garbuglia, ma il gusto figurativo, che talvolta ha esiti stupendi, è suo: è la traduzione, in termini formali spesso molto eleganti, d'un immaginazione romanzesca fatta di spasimi e di assilli, non a caso esaltata dalla musica verdiana.
Vogliamo dire che se il tema centrale (la magia della realtà) si frantuma, e il motivo della tascinazione femminile, capitale nel romanzo, è un po’ diluito, il film ha scorci di grande potenza evocativa. I tipi della Padania sono caratterizzati felicemente, sovente circola un'aria arcana, nostalgia e cultura si danno spesso la mano nell'eccitazione della fantasia. Sicché finisce che il film c'intrappola, e per quante riserve si debbano avanzare non sempre ci dispiace essere preda dei suoi inganni. D'altronde è così d'ogni confessione: chi la riceve può esserne sedotto...
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