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Intervista (a J.G. Ballard)


di Stan Barets


D - Si possono distinguere tre principali periodi nella sua opera. Il primo è il più classico. Quello di opere come "La foresta di Cristallo" generalmente basate sul tema della fine del mondo. Il secondo, "Vermilion Sands" per esempio, rivela delle preoccupazioni più estetiche. L'ultimo infine, quello di "Crash" o di "The Atrocity Exhibition" (1) può essere qualificato come una ricerca sulle cosidette mi mitologie contemporanee: il sesso, il macchinismo e i mass-media. Di fronte alla rigorosità e alla costanza espressa in un'evoluzione che si sviluppa nel corso di quasi vent'anni la prima domanda che viene spontanea consiste nel chiederle quale sarà il prossimo 'periodo'.

B - Innanzi tutto, non bisogna credere che la mia produzione sia diretta da un piano cosciente e metodico. Ma nondimeno è vero che c'è stata un'evoluzione che corrisponde a dei soggetti d’interesse successivi. Me ne sono particolarmente reso conto terminando "Condominium", giacché ho compreso che avevo definitivamente terminato la serie delle mitologie della tecnologia. Ora, ho bisogno, in qualche modo di ritornare indietro. Il mio prossima romanzo (2) sarà basato più sull’immaginazione invece che sull'osservazione. In un certo senso, penso che ricorderà "La foresta di Cristallo". È un ritorno alle origini. Un ritorno al mondo dell'immaginario puro. Non abbandono il presente poiché la trama di questo romanzo si rifarà alla nostra epoca.

Ma rinuncio per il momento all’esplorazione della psicologia moderna creata dalla tecnologia: lei comprende, ho iniziato a scrivere il primo racconto di "The Atrocity Exhibition" nel '65. Sono ben dieci anni che sviluppo questo tema. Quando intrapresi questo tipo d'esplorazione della nostra civiltà ero sorpreso dal fatto che gli anni '60 fossero un autentico periodo di rivoluzione.

Rivoluzione dei modi di vivere, nelle idee, nei costumi. Ora gli anni '70 sono un periodo amorfo dove non succede più niente. È il consolidamento dell'acquisito. I prossimi venti o trenta anni, quelli che chiuderanno il secolo, non saranno che un prolungamento dei cambiamenti avvenuti negli anni '60. In Inghilterra, attualmente, non accade più niente. Tutto è morto. È per questo che considero i miei racconti di quest’epoca profondamente ottimistici e non a livello di denunce di un presente morboso come molti critici hanno creduto

D - Vuole parlare del suo prossimo romanzo?

B - È la mia civetteria d'autore che non mi permette di parlare di quello che sto scrivendo. Ma, se lei vuole … Diciamo che sarà la storia d'un adolescente, un ragazzo di 17 anni, che vive in una delle grandi conurbazioni moderne, qualche cosa come Long Island a New York, in un periodo che ho volutamente considerato post-tecnologico. Nell'anno 2000. Ho immaginato una società dove le grandi industrie, le imprese gigantesche sono giunte alla fine e dove la maggioranza delle persone s’è messa a vivere secondo un modo di tecnologia dolce. L'ecologia, la vita pastorale, tutto questo genere di cose… La vita placida, vegetariana, con i mulini a vento per produrre l'elettricità, i telai ... Ma il mio 'eroe' ne ha abbastanza di tutto questo. Per lui è una sorta di vita castrata. Allora decide di ritornare alla città deserta attratto dalla Vecchia Tecnologia, che conosce attraverso una sorta di veduta archeologica È ipnotizzato dai grattacieli, le autostrade, e sogna di fare rivivere tutto. Ma si sbaglia, s’illude … Ecco, ho già detto troppo; non voglio raccontarlo più in dettaglio.

D - Secondo lei gli anni '60 rappresentano il massimo dell'onda tecnologica e a partire da questa data, tutto non può che degradarsi?

B - È una possibilità molto complessa. Quello che m'interessa sono i pericoli e le possibilità. Così, agli inizi degli anni '60 si poteva temere una guerra mondiale nucleare. In quanto scrittore di SF il mio mestiere consiste nell'anticipare l'eventualità, non nell'emettere profezie. Devo esagerare, esacerbare i pericoli potenziali del mondo moderno. Attualmente, penso che un’ipotesi molto probabile sarà quella che la gente rigetterà l'"hard technology". C’è una grande disillusione nel progresso. Ritornare alla natura, far crescere da soli i propri legumi, tessere i vestiti .... Un modo di vita più sentimentale.

D - Non pensa che la guerra del Viet-nam, almeno negli Stati Uniti, ha contato molto nel sviluppare questa avversione al progresso?

B - Si, sicuramente, dopo il Viet-nam, l'autorità morale che deteneva il concetto di progresso è in gran parte crollata. E la stessa cosa vale per l'autorità morale della fisica nucleare, che non può più sussistere di fronte alla minaccia di un confronto atomico. E la stessa cosa vale per quanto concerne i programmi spaziali. Si tratta di uno scacco totale. E pertanto si tratta di uno dei successi più fantastici di questo secolo. Questo non ha nessuna rispondenza nell'immaginazione della gente. Dopo un tale avvenimento, parlo per intenderci della discesa di Armstrong sulla Luna, niente avrebbe dovuto essere come prima. In altri tempi, tutto sarebbe stato sconvolto, delle abitudini, delle nuove mode sarebbero nate E qui, niente!!! Un tale avvenimento avrebbe dovuto essere l’origine di tutto un nuovo sistema di metafore. … La spiegazione è evidente: la gente ha perduto confidenza con la scienza.

In un certo modo, direi, che ha perduto anche la confidenza con i valori del cambiamento sociale. È questa la spiegazione del pericolo che vorrei anticipare, è questa l’attitudine sentimentale che fa rifiutare il progresso. Questo è un errore a mio parere.

D - Qualche anno fa, in un intervista dove le domandavano quali rapporti esistessero tra realtà e finzione nella sua opera, lei dichiarò che tutto era Science-Fiction e che lei preferiva servirsi dei personaggi mitici della realtà piuttosto d'inventare figure totalmente romanzesche. È dello stesso parere ora?

B - Lo credo tutt'ora!! Penso che i nostri contemporanei siano particolarmente avulsi dal mondo dove vivono. Sono incapaci d'esaminare la psicologia della vita di tutti i giorni. Lo scopo che mi sono fissato à esattamente contrario e consiste nell'enumerare i rapporti tra le mitologie moderne, i mezzi di comunicazione di massa, e le deformazioni della psicologia.

C'è una geometria segreta che collega tra di loro tutti questi elementi, una logica interna della nostra civiltà. Il senso generale dell'evoluzione che conduce dal romanzo classico alla Sf, è il passaggio dal realismo a quello che io chiamerei neo-realismo. Evidentemente non si tratta più di realismo come avrebbe potuto intenderlo Flaubert, e pertanto, per me "The Atrocity Exibition" è un libro profondamente ancorato a queste nuove realtà. In questa antologia parlo di quello che è la nostra vita. Di ciò che sono la televisione, i pub, le comunicazioni, i divi; li tratteggio tutti come degli elementi della nostra realtà.

D - Ciascuna delle nostre visioni della realtà si trasforma a sua volta in una parte della realtà senza che si possa sbrogliare la matassa.

B - Si, esattamente. Giacché la gran parte degli elementi della nostra visione della realtà sono infatti fittizzi, sono degli elementi mitici riflessi. Noi viviamo in un mondo di simulacri. Non voglio riferirmi solamene alla nostra percezione dell’esistenza delle celebrità del cinema, della televisione o della politica, ma anche ai rapporti umani che intercorrono fra uomini e donne. La relazione che esiste ai nostri giorni fra uomini e donne è un romanza. Viviamo le nostre vite come fossero leggendarie. È in questo senso che non si può più parlare di realismo nel vecchio senso del termine, noi viviamo l'era del realismo immaginario. Non esistono più frontiere precise tra il mito e la realtà. E quando guardo le altri arti, la pittura, il teatro, per esempio credo che sia una tendenza generale. Ridurre la parte della finzione a partire da queste nuove realtà dell'esperienza. Credo che si tratti dello stesso processo che fa passare dalla science~fiction alla speculative fiction.

Un tale ragionamento applicato alla Sf fa dunque, suppongo, rigettare categoricamente le opere interamente d'immaginazione, la sword and sorcery, per esempio?

B - Onestamente, si, per esempio, prendete Moorcock; ho seguito la sua opera molto da vicino dato che siamo amici intimi. Dieci anni fa avevamo fatto anche dei progetti per romanzi da scrivere insieme. Abbiamo lavorato su un libro ambientato in un deserto. Questo ha dato "The Worlds of Limbo" che lui ha poi finito da solo. In quel periodo Moorcock stava anche scrivendo il suo primo romanzo di fantasia eroica: "Elric il negromante" mi pare, e io cominciavo "Crash" e "The Atrocity Exhibition". Ultimamente ho tentato di convincercelo a lasciar perdere quel genere di storie e a ritornare alla realtà. Secondo me, deve cercare un equivalente moderno del suo Elric. È quello che ha fatto per esempio con il personaggio, di Jerry Cornelius. Penso di essere in un certo qual modo all'origine d'una parte della sua opera.

I personaggi reali che lei impiega come personaggi fittizzi nei suoi romanzi sono sempre tratti dalle arti visive. Mi sembra che c'è un grande assente, tra questi personaggi, è lo scrittore di Sf. Non è una sorta di grande saggio dei tempi 'moderni? Lei conosce i libri di Kurt Vonnegut? Nei quali possiamo trovare il personaggio di Kilgore Trout che mi sembra molto vicino alle sue preoccupazioni.

B – Si, capisco dove volete trascinarmi. No, infatti non m'interesso molto a Vonnegut. È troppo sentimentale per i miei gusti. Il suo scopo è un mondo migliore, cerca sempre di rassicurare i suoi lettori. È troppo facile! Per quanto concerne l'autore di Sf, come personaggio, è effettivamente una possibilità, ma non mi sembra molto valida…

D – La sua risposta non tiene conto che lei è soprattutto influenzato dalle arti visive?

B - Si, è una parte della risposta. Ma riflettendoci bene mi domando se voi non abbiate più ragione di quanto io pensi. L'autore di Sf come personaggio esiste nei miei racconti: sono io stesso, come in "Crash" per esempio.

D - Per restare ancora alle arti visive, si è sovente detto che quello chi scrive potrebbe essere dipinto: Cosa ne pensa?

B - Ne sono persuaso. Sono convinto che i mezzi di comunicazione cinematografica o la pittura siano molto più forti, molto più pragmatici della scrittura. La cosa scritta ha numerosi handicaps. È fuori moda. Pensate alla fotografia per esempio. MacLuhan ha perfettamente ragione. Prendete qualcuno come Andy Warho1 che è a metà tra le arti classiche e i mezzi moderni di comunicazione, il suo messaggio è molto più espressivo per me di quello di numerosissimi scrittori. Le tecniche che egli impiega sono elementi della costruzione della nostra realtà.

D - So che si è tentato di adattare certi suoi romanzi per il cinema. Crash in particolare. Suppongo che lei sarà dispiaciuto di non potere dirigere personalmente questi film.

B - Oh, si mi piacerebbe! Ho preparato una volta per la BBC un cortometraggio di venti minuti. Era una prefigurazione di "Crash". I paesaggi delle autostrade, gli incidenti. Ma siccome sono uno scrittore ossessionante, mi è molto più facile scrivere che filmare.

D - La pittura è una delle vostre grandi fonti d'influenza.

B - La pittura surrealista mi ha molto influenzato. Il surrealismo dipinge quello che noi abbiamo all'interno delle nostre teste. Warhol e gli autori della pop-art i quali dipingono la realtà esteriore sono anch’essi molto importanti. In questi due movimenti ho trovato sia delle idee che delle conferme alle mie ricerche.

D - So che lei ha organizzato una esposizione al momento dell'uscita di "Crash": può parlarmene'?

B – Si. Era nel ‘70, quando avevo terminato "The Atrocity Exhibition". Vi ricorderete senza dubbio che il personaggio principale organizza una esposizione di vetture che avevano subito degli incidenti. È quello che ho voluto fare. Esibendo carcasse d'auto, simboli di morte, simboli di una certa civiltà, e togliendole dal loro contesto mobile, le ho messe direttamente sotto lo sguardo dei visitatori di una galleria d'arte, ho voluto provare, fare un’esperienza.

D - Fra le altre cose che l'hanno influenzata ce n'è una di cui si è sovente parlato, si tratta della sua giovinezza. Lei è nato ed ha passato la giovinezza in Cina.

B - È il paesaggio che mi ha molto influenzato. Il sud-est asiatico è molto più drammatico dell'Europa. In più, io vi ero nei tempi della guerra americano-giapponese. Quando la bomba atomica è esplosa a Nagasaki, non abitavo che a 500 miglia da lì. La citta dove vivevo era deserta a causa della guerra. Tutto era in rovina. Anche nella campagna circostante, i canali d'irrigazione erano distrutti. Tutto era inondato.

D - Si è parlato di rassomiglianze tra la sua opera e il cinema giapponese. La stessa lentezza solenne, la stessa crudeltà.

B - Questo mi sembra perfettamente giustificabile. Penso che la rassomiglianza è dovuta al fatto che veniamo entrambi dallo stesso mondo. C'è un'asprezza, un silenzio nei paesaggi asiatici, che mi hanno molto impressionato, E in mezzo a tutto questo, c'era la guerra con delle sequenze violente, insostenibili. Ora vorrei ritornare laggiù, vorrei ritornarci come autore-giornalista per scrivere della Cina del dopo-Mao.

D - È solamente un sogno o si tratta già di un progetto concreto?

B - Sono deciso ad andarci. Penso nei prossimi cinque anni. Sono molto curioso di vedere in loco i risultati dell'opera di Mao. La Cina continuerà o regredirà? Mao ha lasciato una scacchiera con sopra 600 milioni di pedine, e la partita non è ancora terminata.

D - Questo interesse per Mao è recente? Mi ricordo solamente di personaggi politici occidentali nei suoi libri.

B - Non ho mai parlato del mondo asiatico. Credo che i diversi regimi che regnano laggiù siano tutti troppo repressivi - non giudico ne da un punto di destra ne di sinistra- ma credo che siano incapaci di lasciare un posto al cambiamento sociale, che è il punto di vista che mi ha sempre di più interessato.

D - Lei dice che non si preoccupa di politica nel senso di contrapposizione tra destra e sinistra. Difatti, nella sua opera, malgrado l'importanza dei personaggi politici, questi non sono mai giudicati. Esistono in quanto espressione di una mitologia quotidiana.

B – Assolutamente. Non ci sono opinioni politiche esplicite. Quello che m'interessa nei personaggi come Reagan, Kennedy, etc. è il fatto che essi sono innanzi tutto l’espressione dei nostri fantasmi, la concretizzazione mitica delle nostre vite. Non è la loro personalità che li ha fatti imporre a noi, siamo noi che li creiamo. Siamo noi che scriviamo la loro parte.

D - Ritornando alla sua opera, penso che lei abbia principalmente descritto due mondi. Uno, decadente e romantico, che è quello per esempio di "Vermillion Sands". L’altro, quello delle mitologie tecnologiche, quello di "Atrocity..." (di cui "Crash" non è altro che un caso particolarmente sviluppato); E nei due casi lei mette in scena delle situazioni che sovente sono uguali. È quello che chiamerei dell’adescamento dove i personaggi si lasciano in qualche modo catturare dal mondo che li circonda, cedendo ad una sorta di pesantezza della rassegnazione.

B - Lo credete davvero? Si "L'ile de Beton" e "La foresta di cristallo" corrispondono alla vostra definizione. Ma il punto di vista è diverso. Nel primo il protagonista si lascia in trappolare da una realtà che ha voluto molto bella, mentre nel secondo ha tentato di bandire il sentimentalismo. I miei primi romanzi erano troppo sentimentali. Finivano con troppi "happy ends". Credo che la mia scrittura tenda a divenire interamente non sentimentale. Può darsi che sia andato troppo lontano? Ma avevo bisogno di un ultimo test. Se si riesce a sopravvivere alla freddezza di questo mondo si potrà sopravvivere a qualsiasi cosa. È il senso delle mie macchine distruttrici, è il senso delle assenze di happy ends o di sentimentalismo nei miei romanzi. "Crash" non è stato compreso sempre in questo senso.

Ho ricevuto numerose reazioni estremamente intelligenti alla lettura del mio romanzo, ma ricevo regolarmente anche delle lettere molto bizzarre dall'America. Esiste una sorta di fan club, laggiù sulla costa occidentale, che è pressoché interamente formato da persone che hanno subito incidenti automobilistici, che sono sovente dei grandi infermi. È stata una lettura superficiale del mio romanzo che gli ha fatto vedere in esso un'esaltazione del culto della violenza. Mi parlano delle loro cicatrici, dei loro moncherini. Mi chiedono altri romanzi dello stesso genere…

D - I suoi personaggi sono estremamente passivi. Si lasciano facilmente catturare dal mondo che li circonda.

B - Si, questo me lo hanno fatto notare spesso. Ma si tratta di un falso processo. Prendete "L'ile de Beton" per esempio. Durante la prima parte del romanzo il mio personaggio lotta psicologicamente per uscire da questa trappola, e quando infine rinuncia riesce a comprendere la sua vera motivazione inconscia: quella di vivere come un novello Robinson. Non ho fatto altro che dargli una possibilità di comprendere se stesso. Non sono dei personaggi passivi. Nascono da una nuova realtà. Nella classiche storie "robinsoniane", gli eroi sono gettati dalla sorte sulle loro isole e là cercano di ricostruirsi un mondo uguale a quello che avevano conosciuto: con gli stessi rapporti gerarchici tra la natura e la loro cultura. Impongono i valori della loro civiltà al mondo nuovo. In "L'ile de Beton", il personaggio si ritrova solo con la sua personalità d'uomo del XX secolo; cioè profondamente solo ed alienato. Robinson è una visione ottimistica del ruolo dell'uomo nell'universo. La mia visione invece è quella dell'alienazione. Con la necessità di accettarsi come esseri umani.

D - Per chi scrive? Per lei stesso? Per degli eventuali lettori?

B - Per i lettori no: per me stesso, non più ... Penso di scrivere malgrado tutto. A dispetto di me stesso. La scrittura è una cosa molto complessa e molto ambigua. Non so io stesso perché scrivo. In tutti i casi mi rifiuto di pensare ai lettori. È troppo pericoloso. Se lo facessi scriverei solo ciò che piace. E non è assolutamente il mio scopo. Tento solamente di essere onesto.

D - Abbiamo tentato d'inventariare le cose che hanno influenzato la sua opera parlando in successione della pittura, della tecnologia, del mondo asiatico. Ma esiste un altro punto che non abbiamo evocato, è il problema della droga. Lei ha già fatto dichiarazioni pubbliche su questo soggetto in Inghilterra. Desidera parlarne?

B - Voi state parlando senz'altro del mini-scandalo della rivista "Ambit"? Si, è vero che ho provato L.S.D. D'altronde molta gente crede che "La foresta di cristallo" sia stata scritta sotto l'influenza della droga. È falso. Ma esistono molti falsi problemi quando si parla di droga.

La droga non porta niente che non sia già in noi. Quello che la droga mi può dare, so che lo troverò naturalmente in me stesso. È vero che può servire ad esplorare delle possibilità, ma queste non vanno troppo lontano. Si è avuto soprattutto un fenomeno a livello di moda negli anni '60. Ora si fuma l’erba, e con questa si ha lo stesso effetto che bere un bicchierino. Infatti, quello di cui si parla sovente, è l’affare "Ambit". Era una piccola rivista letteraria inglese dove ho fatto organizzare un concorso destinato a premiare un testo scritto sotto l’influenza della droga, qualsiasi tipo di droga, legale e no. Il concorso ha avuto un'enorme successo. La rivista ha potuto continuare a vivere. I migliori testi sono frattanto stati pubblicati. Ma tutto questo non è andato molto lontano giacché abbiamo accordato il primo premio ad una ragazza, e la droga che prendeva non era altro che ... la pillola contracettiva.

D – Ho l’impressione che non abbiamo parlato molto di SF in questa intervista. È finita la SF?

B - Non del tutto. Un certo modo di scriverla è finito, passato di moda.

Non si può più scrivere come si faceva negli Stati uniti diciamo negli anni cinquanta. Non voglio criticare i grandi autori classici come Van vogt, Asimov, o Heinlein, ma penso che la evidente vocazione della sf è di guardare all'avvenire. E il futuro che essi inventarono venti o trenta anni è ora il nostro passato:. È finito il viaggio nello spazio.

D - Vuol dire che si considera come uno scrittore di Sf più che questi che lei stesso ha citato?

B - Assolutamente considero i miei libri come facenti parte a tutti gli effetti della Sf.


Intervista raccolta il 9 ottobre 1976 a Parigi


Tratto da Univers n. 08. Ripreso con il permesso degli autori. Traduzione di Luigi Luminati


Note del traduttore: (1) Ancora non tradotto (chissà quando lo sarà) in Italia.

(2) L'ultimo romanzo di Ballard è recentemente apparso in Inghilterra ed in Usa, Si tratta di "The Unlimited Dream Company" che ha ottenuto anche il British Association Award. Ma quello a cui fa riferimento Ballard è il romanzo breve "La civiltà del vento" apparso in Urania.






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