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Ballard o dell'angoscia


di Maurizio Nati


Devo avere scritto da qualche parte, forse soltanto a mio uso e consumo, che Ballard è uno degli autori che leggo più malvolentieri. E non perché non mi piaccia, anzi. Ballard mi affascina, almeno nelle sue cose migliori, e potrei anche considerarlo fra i miei autori preferiti, se non fosse che mi coinvolge troppo, ed istintivamente sono quindi portato a rifiutarlo.

Cercherò di spiegarmi meglio.

Ballard, come Dick e qualche altro, si è gettato a capofitto nel famoso "inner space", che è poi uno spazio comune a cui tutti attingiamo, una specie di patrimonio collettivo ed universale nel quale identificarsi e riconoscersi. O, se si preferisce, una semplice presa di coscienza. Quest'operazione, condotta con la serietà e la profondità del grosso scrittore, lo ha portato a toccare i punti nevralgici del nostro essere, a mettere a nudo la nostra essenza più intima, in breve a sbatterei in faccia la nostra verità.

Che è poi una verità dolorosa fatta di paure, contraddizioni, retaggi, inganni più o meno consapevoli, cui solitamente si preferisce non prestare attenzione, lasciandola li in qualche angolo polveroso della nostra psiche, in modo che non possa nuocerci. Che è poi una verità dolorosa fatta di paure. Leggere Ballard significa dunque dovere fare i conti con questa verità, almeno nel caso in cui si venga a stabilire con lui una correlazione intima, prendere coscienza della nostra vera natura, toccare quasi con mano l'abisso che abbiamo dentro: in una parola, soffrire. Né può dirsi che si tratti di una sofferenza catartica, perché alla fine non ci si sente migliori, ma solo spaventati, atterriti, sgomenti.

Ballard fa male, ed è per questo motivo che mi accosto a lui sempre con molta circospezione. È come una seduta dallo psicanalista, con la differenza che non ci sono fini terapeutici ma soltanto una serie di interazioni reciproche che variano con la maggiore o minore sensibilità del lettore: C'è quel terribile romanzo che è "High Rise" (Condominium, nell'edizione italiana, presumibilmente non integrale come è nelle abitudini di Urania), che non sarà forse tra i migliori di Ballard, ma che è uno di quelli maggiormente rispondenti, mi sembra, a questa tematica dell'angoscia contemporanea.

La casa come rifugio, come utero, dove gli altri non possono giungere, dove la realtà soggettiva prevale su quella oggettiva; una casa, nella fattispecie, a forma di grattacielo; quindi con una simbologia fallica evidente (di qui il dualismo maschile-femminile, fallo-utero, ricco di implicazioni freudiane). La ricerca di uno spazio vitale (che in tale ambiente non c'è, o è troppo limitato), l'insorgere di contrasti individuali e collettivi, la divisione che riproduce, nel microcosmo del grattacielo, quella esistente nella società maggiore, il gioco delle alleanze. L'aggressività che emerge e che, una volta liberatasi, non trova più ostacoli. Caduti i valori fissi ed immutabili (ma nello spazio chiuso, perché all'esterno esistono ancora) non se ne trovano altri che possano sostituirli, ne forse ne vale la pena, in definitiva, vista la morbosa ma fascinosa tendenza alla regressione animalesca, alla liberazione degli istinti.

C'è un altro bel romanzo di Robert Silverberg, 'The World Inside' (Monade 116 - Milano, 1974) che ricorda molto da vicino 'High Rise' (anche nel titolo, che fa esplicito riferimento all'inner space ballardiano), Ma Silverberg non va oltre una diligente, approfondita e motivata descrizione dell'ambiente e dei personaggi, colorandola per di più con una capacità stilistica che è indubbiamente superiore a quella di Ballard, abitualmente secco e tagliente. senza fronzoli. Silverberg, cioè, non affonda il bisturi fino in fondo come invece fa Ballard. Ed è proprio in questa operazione chirurgica impietosa, che consiste il fascino di 'High Rise', al di là della sua costruzione approssimativa ed un po’ affrettata.

C'è poi da dire che quest'ultimo romanzo è ambientato in epoca contemporanea, e suggerisce cosi l'idea di qualcosa che può accadere (e chi ci dice poi, che non succede realmente? Guardiamo quello che succede nei lager suburbani, nei ghetti delle metropoli, nei casermoni ultrapopolari dove si vive quotidianamente a strettissimo contatto di gomito, e dove vige in effetti un diverso codice di comportamento sociologico). In 'The World Inside', invece, la stessa ambientazione in un futuro remoto e le mastodontiche dimensioni dell'edificio (1000 piani, e 40.000 abitanti!) amplificano a dismisura la dimensione realistica dell'assunto e ne attenuano l'impatto aggressivo nei confronti del lettore; il quale ritiene (magari a torto) che tutto ciò potrà accadere, ma per il momento non lo riguarda ancora.

Non saprei dire se Ballard è più sano o più alienato di noi. No ci sono canoni validi per affermarlo con sicurezza. È certo però che vede più di noi, ed ha più coraggio di noi (ci vuole coraggio, per guardare in faccia a realtà sgradevoli). Non a caso è infatti uno dei pochi scrittori di fantascienza che abbia ricevuto ospitalità (talora anche consensi) sulle riviste non specializzate, e che quindi sia stato considerato alla stregua di un autore 'mainstream', cioè sotto un'ottica diversa. Cosa che per esempio non mi risulta sia successa ad altri scrittori, per certi versi più dotati, ma forse più legati al fenomeno Sf, come Dick, Brunner, Ellison, tanto per fare qualche nome·

Alienazione, incomunicabilità, dubbio, angoscia, trovano in Ballard un espositore lucido e spietato, che del mezzo fantascientifico e dei suoi stilemi sa servirsi in modo puntuale ed efficace, ma non condizionante. Prendiamo per esempio i suoi romanzi cosidetti 'catastrofici'; si sa che questo è un aspetto tipico di certa fantascienza inglese (ed è vero, vedi Wyndham e Christopher). Ma chi direbbe mai che il vento (The Wind from Nowhere), l'acqua (The Drowned World), la siccità (The Burning World), la stessa sabbia di Vermilion Sands siano semplicemente agenti atmosferici o loro manifestazioni? Il vento si trasforma così nel turbinio delle coscienze spaurite e frastornate, l’acqua diventa il liquido amniotico prenatale, la siccità rappresenta l'arido e sterile agitarsi dell'uomo nel cerchio della sua piccolezza, e la sabbia simboleggia lo scorrere (apparente) del tempo, che in realtà lascia sempre le cose come stanno, perché non c'è reale evoluzione, nell'uomo di Ballard; c’è involuzione, stasi, o addirittura regressione.

E ancora, la ricorrenza dei quattro elementi fondamentali della filosofia antica (aria, terra, acqua, fuoco) visti come componenti basilari della vita, anche nelle loro manifestazioni distruttive. Si potrebbe andare avanti ancora, e scoprire le complesse simbologie nascoste (ma non troppo) nella tematica ballardiana, (che è, giova ricordarlo, di una rigorosa coerenza attraverso tutto l'arco della sua produzione), ma quello che vorrei sottolineare è l'uso particolare che viene fatto dello strumento fantascientifico che è, si un presupposto indispensabile, ma finisce poi col passare in secondo piano di fronte agli aspetti più propriamente contenutistici e tematici. A suo modo, anche Dick ha fatto lo stesso lavoro, servendosi della fantascienza per sviluppare un suo discorso che poi prosegue indisturbato per la propria strada. Eppure, Ballard e Dick sarebbero impensabili, se non esistesse la science-fiction. O meglio, l'avrebbero inventata loro.

È difficile sottrarsi al fascino morboso ed ammaliatore di Ballard. Il suo mondo ha la misteriosa suggestione di un quadro di Bosch, dove l'angoscia ed il tormento sono presenze tangibili, ma in qualche modo giuste, necessarie, e fanno parte del nostro bagaglio di esseri imperfetti, ci appartengo in virtù di eredità ancestrale trasmessaci geneticamente, come un marchio del quale non possiamo liberarci. Possiamo chiudere gli occhi, e tentare di ignorarla, ma è uno sforzo vano e provvisorio. Prima o poi dovremo fare i conti con la nostra verità. Ballard anticipa questo momento e ci offre l'immagine del disastro quotidiano, la reale dimensione dell'angoscia che è in noi e che forse nessuna religione potrà mai cancellare. Men che meno la religione dell'Uomo.


Copyright Maurizio Nati, 1978

Per gentile concessione dell'autore e della fanzine Novae terrae per cui l'articolo era stato scritto






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