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Ballard: luci sinistre: "Empire of the Sun"


di Peter Kamp


La realtà spesso è addirittura più strana della fantasia: il nuovo romanzo di J.G. Ballard, Empire of the Sun, sembra concepito per dimostrare questa tesi. Ambientato nella citta di Shanghai e nei suoi dintorni negli anni turbolenti tra Pearl Harbour e Hiroshima, il libro, che attinge abbondantemente dalle esperienze dello stesso Ballard durante quel periodo, esplora un mondo lontano anni-luce da quello della normale narrativa di guerra, al punto che quando Jim, il giovane protagonista, legge dei racconti di manovre militari su copie del "Reader's Digest" recuperate dai piani americani di soccorso, egli avverte "che essi descrivono un'avventura eroica su un altro pianeta", qualcosa "lontano un universo" dalla guerra che lui ha conosciuto. Romanzo che apparentemente rappresenta un cambiamento di direzione nell'opera di Ballard, Empire of the Sun - con i suoi panorami di abbandono, con l'attenzione concentrata sull’eccesso e sulla disumanizzazione - suggerisce anche il motivo per cui l'autore deve aver trovato tanto congeniale in precedenza il genere della fantascienza catastrofica.

Pur rimanendo naturalistico, Empire of the Sun riporta una cronaca dell'anomalo. All'inizio e in conclusione (il romanzo si apre e si chiude con vivide, dense evocazioni della città) vi è Shanghai, il bizzarro scenario del libro: un grottesco conglomerato di squallido e sgargiante, ricevimenti in giardino e impiccagioni pubbliche, stranieri viziati e nativi che muoiono di fame. Sulle loro Buick e Cadillac con autista i coloni europei scivolano attraverso folle di gangster cinesi dagli abiti lustri, mezzani e informatori e contadini, mendicanti dai tintinnanti barattoli di latta e deformi portatori di risciò con "vene grosse come dita strette nella carne dei polpacci rigonfi". Scene di strada sfrigolano con pungente immediatezza mentre venditori di marciapiede friggono bocconcini di serpente o quagliata di fagioli in olio d'arachidi, o prostitute eurasiatiche in pellicce lunghe fino alle caviglie fischiano tra i denti agli uomini che emergono dagli hotel. La sbilenca stravaganza dell'ambientazione è riassunta nell'adunata di duecento gobbi, chiamati fuori dai loro tuguri per starsene in costumi medievali attorno al Teatro Catai - il più grande cinema del mondo - per la promozione pubblicitaria della "prima" di Il gobbo di Notre Dame.

La più lucida attenzione di Ballard si concentra sul Distretto di Colonizzazione della città, dove, nei giorni che gradatamente conducono a Pearl Harbour, la vita coloniale, senza più energie né cautela, ha la sua impennata finale. Tra le limousine e i piaceri di questa zona ancora neutrale, i combattimenti in Europa si configurano per la maggior parte soltanto come un'altra sfaccettatura di divertimento: lo sforzo bellico è alimentato con bottiglie di whisky allegramente sorteggiate durante le danze. Perfino quando la catastrofe colpisce e i giapponesi si impadroniscono della città questa mentalità da tempo di svaghi persiste, evidente nel bagaglio che i prigionieri portano con sé: «Avendo passato gli anni di pace sui campi da tennis e di cricket del Far East, essi si aspettavano con piena fiducia di trascorrere gli anni di guerra allo stesso modo. Dozzine di racchette da tennis pendevano dai manici delle valigie; c'erano mazze da cricket e canne da pesca, e perfino una serie di mazze da golf."

Queste aspettative vengono rapidamente spazzate via nei campi di prigionia, così come vengono spazzate via le supposizioni comuni del lettore. Il resoconto di Ballard sull'incarcerazione brulica di informazioni inattese. Ora che l'anarchia infuria a Shanghai, gli Europei considerano i Giapponesi tanto come loro oppressori quanto come loro protettori, uno scudo militare tra loro e gli indigenti, disperati Cinesi: «Come potranno sopravvivere", si domanda Jim, con preoccupazione, dei suoi compagni di prigionia quando la guerra è finita, senza che i Giapponesi si occupino di loro?".

Entrare in un campo di concentramento, così affiora spesso, è più difficile che uscirne, e nettamente più sicuro.

A rendere ancora più obliquo l'inconsueto angolo visuale del libro vi è il fatto che il suo punto di vista narrativo è quello di un ragazzino, soltanto undicenne quando l'azione prende avvio. Separato dai suoi genitori durante l'attacco giapponese, Jim scopre di dover badare a se stesso ancora per quattro difficili anni. Inizialmente - in osservanza della "rigorosa moralità dei Chums Annuals" - egli sfida gli invasori e conduce un'esistenza da fuorilegge nelle residenze deserte del Distretto di Colonizzazione, sostenendosi con olive e salatini, mentre il livello dell'acqua si abbassa in piscine un tempo splendide e prati ben tagliati ritornano allo stato selvatico. Poi, mentre Shanghai diventa sempre più feroce, Jim si rende conto che la sopravvivenza richiede una resa. Con sforzi considerevoli, fugge in un campo di concentramento.

Con ferma, sconvolgente abilità, Ballard fa una relazione dettagliata delle routine locali.

Le enormità vengono raccontate spassionatamente con dovizia di particolari: la violenza, le malattie e la malnutrizione. Tormentati da mosche e zanzare, malaticci e affamati, i prigionieri cercano a tastoni tra le loro razioni il premio di pochi curculionidi che forniscano loro proteine. Sviluppando un buon senso poco comune, Jim scopre quanto fosse importante essere ossessionati dal cibo, e che «probabilmente era sensato fare qualunque cosa per sopravvivere". Pur aiutando gli altri quando è possibile, egli dà per scontato che questi, come del resto lui, in caso di estrema necessita metteranno se stessi prima di ogni altra cosa. Non che tutti la pensino così. Sebbene privo di bellica prosopopea, il libro registra qualche eroismo da parte di civili: un dottore in gravi difficoltà ma pieno di risorse aiuta Jim a sopravvivere, e così una altruistica donna olandese.

Coerentemente con l'enfasi riservata dal libro per lo sprofondamento in se stessi e per l'accettazione come dato di fatto dello sgomento generato dalle condizioni di vita nel campo, l'attenzione di Jim tocca soltanto fugacemente i successivi disastri capitati a questi benefattori. Il dottore, si viene a sapere incidentalmente, ha avuto un occhio accecato. La signora Hug, l’olandese, viene trattata con una noncuranza perfino maggiore: persa di vista quando Jim deve far fronte ai rigori della vita nel campo, rientra nella narrazione con tremenda brevità, sotto forma di un polso scheletrico che sporge da una tomba di fortuna.

Cominciando la sua parte di protagonista circondato da bombardieri di balsa e cinegiornali Pathè che riprendono le scene con lucentezza, Jim comprende rapidamente la futilità di questi modelli semplificati della guerra. In realtà, egli scopre, la confusione - fisica e psicologica - è imperante. L'incertezza è l'unico elemento sicuro. L'ambiguità giace ovunque.

Non ci sono chiare linee di demarcazione tra alleati e nemici: la barbarie può venire da un soldato inglese impazzito per le torture come dalle guardie del campo; trattato talvolta con generosità dai Giapponesi, Jim è perseguitato con maggiore insistenza dalla famiglia inglese con cui deve dividere una stanza.

In questo caotico tumulto di guerra, Ballard inserisce di prepotenza quadri surreali o emblematici: il fiume di Shanghai, lo Yangtze, costantemente gremito da una "regata di cadaveri", mentre dozzine di bare inghirlandate, varate da parenti troppo poveri per pagare una sepoltura, ondeggiano avanti e indietro sulle sue onde; prigionieri europei scheletrici che muoiono in uno stadio olimpico i cui spalti sono stipati di detriti de luxe rubati dalle loro case - frigoriferi, stipi per cocktail, ruote di roulette. Eccellente nel costruire scene su larga scala, paurosamente risonanti come queste, Ballard mostra anche del fiuto per la singola riga ponderata: "I pazienti dell'ospedale giacevano uno accanto all'altro come tappeti arrotolati". La sua prosa che coglie con la fantasia fisionomie come "le facce dei prigionieri, bruciate dal sole ma pallide, simili a cuoio candeggiato dal quale sia sparito ogni colore" - è tanto piena di energia quanto i suoi personaggi ne sono progressivamente prosciugati.

Empire of the Sun è infuso di immagini di luce. Shanghai occhieggia sgargiante di neon e lucentezza. Lo scintillio metallico delle forze del Sol Levante è posto di fronte all'eclisse dell'Occidente coloniale. Luci lampeggiano dalle baionette o dai carrelli d'aeroplano. Fiamme ondeggiano dalle torrette delle cannoniere. Il fulmine più sinistro del libro, comunque, è lo splendore mortale della bomba di Hiroshima, osservato da Jim anche attraverso le quattrocento miglia del Mar della Cina. Gettare sulle cose una luce a suo modo decadente, questo è l'intenso nucleo di Empire of the Sun, un romanzo che non solo illumina brillantemente alcuni aspetti della guerra nell'Estremo Oriente, ma offre anche ritratti penetranti di capacita umane.


Da "The Times Literary Supplement" n. 4250, 14 settembre 1984, pag 1018. Traduzione dall'inglese di Dario Sciunnach. Ringraziamo Giorgio Placereani per la segnalazione e il reperimento del brano.






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