Recensione di Antonio Caronia a "La mostra delle atrocità"
In un’intervista del 1988 a Richard Kadrey e David Pringle Ballard confessava: "Ho sempre considerato The Atrocity Exhibition ( ... ) uno dei miei libri più importanti: lì ho cercato di analizzare fino in fondo quello che succede nel momento in cui il paesaggio dei media interagisce con il nostro sistema nervoso centrale. Qual'è il vero significato di avvenimenti come la morte di Marilyn Monroe o l'assassinio di Kennedy? Come agiscono su di noi a livello neurale, a livello dell’inconscio? Sono portatori, in quanto eventi dei media, di qualche significato nascosto nel profondo della nostra mente? O influenzano la nostra immaginazione secondo modalità impreviste? Io ho cercato di analizzare gli schemi del mondo in cui viviamo. Ecco perché è stata un'opera importante per me. Ho coltivato a lungo l'idea di scrivere un altro libro dello stesso tipo, una specie di seguito, e l'idea non mi ha abbandonato: forse uno di questi giorni lo farò" (Million, September-October 1991).
Non so se Ballard riuscirà a tener fede a questo mezzo impegno. Nel frattempo, con uno dei soliti vergognosi ritardi che caratterizzano l'editoria italiana, La mostra delle atrocità esce finalmente nel nostro paese (trad. di Antonio Caronia, Rizzoli, p. 272, £ 24.000). Credo di avere qualche merito, più che per la traduzione (un'impresa che mi ha sfiancato, forse superiore alle mie forze, e che non so sinceramente se ho portato a termine in modo soddisfacente), per la decisione dell'editore.
Personalmente cercavo da molti anni di consigliare a destra e a manca la traduzione di questo libro, grosso modo dal 1979. Gli editori specializzati, forse comprensibilmente, non ne volevano sapere (ma forse sono io che sono poco convincente: nel corso degli anni ho proposto diverse volte a Gianfranco Viviani di pubblicare The Female Man di Joanna Russ, ricevendone ogni volta scandalizzati dinieghi ed espressioni di compatimento: un libro così non ha mercato in Italia ... ". Poi ho visto con piacere che Carlo Pagetti e Oriana Palusci sono stati più fortunati di me), ma anche editori "di qualità" erano restii (ricordo, fra gli altri Costa e Nolan). Qualche anno fa venni a sapere che Rizzoli, che da L'impero del sole aveva acquisito Ballard alla sua scuderia, ne aveva acquistato su consiglio di Oreste del Buono anche le opere "patologico/sperimentali". Perciò, quando nel 1990 uscì Crash, ne feci quante più recensioni potevo e telefonai in casa editrice per complimentarmi. "Adesso", dissi "Toccherà a The Atrocity Exhibition". Fui molto stupito all'apprendere che non solo quell'opera non era stata acquistata, ma che nessuno lì sembrava conoscerla. Quella volta, forse, fui più convincente, o forse trovai un interlocutore più sensibile e intelligente (nella fattispecie, per dovere di cronaca, l’editor Rosaria Carpinelli).
E così abbiamo (sia pure con anni di ritardo) La mostra delle atrocità. Bisogna dire che non tutto il male vien per nuocere. Nel 1990, infatti, The Atrocity Exhibition è stato riedito in America (si potrebbe quasi dire edito, visto che la prima edizione americana, Love and Napalm: Export USA, del 1972, ebbe tali guai che fu ritirata dalla circolazione quasi subito) dall'editore Re/Search, un raffinato underground di San Francisco, in una bellissima edizione di grande formato, e la traduzione italiana è stata condotta su quella edizione. Purtroppo, data la collana Rizzoli in cui è stato collocato il libro, non ci sono le illustrazioni dell'edizione americana, sconvolgenti e terribilmente pertinenti. Ci sono però quattro racconti inediti (tra cui il triste e ironico Secret History of World War III, un vero concentrato di ballardismo, che vi offriamo qui), e soprattutto le note scritte appositamente da Ballard per quell’edizione, una miniera di commenti chiarificatori (estremamente utili in un libro di questo tipo), di notizie sulla sua vita e di opinioni di prima mano su tanti problemi, anche contemporanei.
La mostra delle atrocità, qualunque sia il giudizio che se ne vuole dare, è senz'altro 1'opera più significativa di Ballard nel periodo a cavallo fra gli anni Sessanta e i Settanta. È la più "sperimentale", e quindi una delle più "difficili", nello stesso senso in cui lo sono i libri di William Burroughs, di James Joice o di Carlo Emilio Gadda. È un'opera di confine, estrema o estremista, e non tanto o non solo per il discorso e i temi che sviluppa, ma per il rigore con cui fonde i due livelli che tradizionalmente si distinguono in un'opera, quello della "forma" e quello del "contenuto" (il che, se me lo consentite, è il marchio della letteratura davvero alta, a prescindere dalla matrice di genere). Voglio dire che la scrittura frammentata, avvolta su sé stessa, la ripetizione dello schema di base nei vari racconti, l'esplosione della linearità narrativa in una serie di frammenti volta a volta drammatici o ironici ma sempre densi, la continua alternanza di scansioni temporali rallentate fino all'immobilità e di incredibili accelerazioni (come dei primi piani minuziosissimi e maniacali e dei campi lunghi), questa scrittura che pare un nastro di Moebius e ci fa passare dalla psiche alla storia senza che ci accorgiamo di aver cambiato faccia della superficie, tutto questo insomma non è il risultato di una scelta interessante ma arbitraria: è una necessità. Lo stravolgimento della forma romanzo tradizionale, in The Atrocity Exhibition più che in Brunner, in Vonnegut, o nei romanzieri postmoderni in genere, è la traduzione stilistica di quella rottura tra tecnologia e forma (ipertrofia della tecnologia) che costituisce uno dei problemi del tardo-industriale, o del postmoderno se si preferisce. Forse perché l'interesse di Ballard si è appuntato fin dall'inizio sull'esplorazione dei rapporti fra ipertrofia tecnologica e modificazione delle strutture profonde della psiche, la sua scelta stilistica è sembrata a lungo meno radicale. delle altre. Ma i paradossi topologici di tanti suoi racconti degli anni Cinquanta e dei primi Sessanta, con l'accostamento sempre più insistito fra gli elementi del paesaggio urbano e la situazione psichica dei protagonisti, preparano la strada alla scrittura implosiva di The Atrocity Exhibition e, in misura minore, di Crash.
Vorrei dare solo un esempio di questa simbiosi, per dirla in termini più intuitivi, fra "idee" e "stile". In molti passi del libro, e spesso nelle liste apparentemente incongrue di oggetti reali o immaginari di cui esso è ricco (liste elaborate secondo il metodo della libera associazione, come ha rivelato lo stesso autore, e che fanno esplicito riferimento all'iconografia e al metodo surrealista, tanto da sembrare dei martellanti cadavres exquisis), torna più volte l'immagine del sistema nervoso, dei "livelli spinali" erosi, messi a nudo, in uno scambio incessante tra paesaggio esterno, interno del corpo e media landscape. Eccone un esempio:
"All'alba Trabert si trovò a guidare lungo un'autostrada che penetrava nella città deserta: terreni a pascolo e stazioni di servizio, e in alto un intrico di fili, come un'algebra del cielo ormai dimenticata. Quando apparvero gli elicotteri fermò la macchina e proseguì a piedi. Dietro di sé sentiva l'urlo lamentoso delle sirene delle auto della polizia, icone neuroniche sulle autostrade spinali [pp. 93-94].
È la messa a nudo del corpo, lo scambio fra interno ed esterno, come lo stesso Ballard riconosce esplicitamente nelle note:
"Icone neuroniche sulle autostrade spinali". Qui, come ovunque in La mostra delle atrocità, il sistema nervoso dei personaggi è stato esteriorizzato, come caso particolare di un più generale rovesciamento fra mondi interni ed esterni. Autostrade, uffici, volti, segnali stradali, sono percepiti come se fossero elementi difettosi di un sistema nervoso centrale [pp. 102-103].
La trascrizione diretta dell'immaginario sulle nostre reti nervose è ormai più che una metafora, lo stile è insieme l'uomo e la cosa (per superare un vecchio dilemma), perché i confini fra soggetto e oggetto svaniscono sempre più. Come in qualche occasione anche Dick (per esempio in The Simulacra) Ballard coglie un punto di crisi, uno snodo dell'immaginario, nella figura dell'interno del corpo (e in particolare del sistema nervoso) che si scambia e si confonde con l'esterno, con la realtà percepita dai nostri sensi. È fin troppo evidente che questa è una metafora, quasi "letteralizzata" (ma non è questo uno dei procedimenti tipici della fantascienza?), del rapporto di scambio che l'uomo instaura col mondo, dell'insieme delle rappresentazioni mentali che di esso si fa e delle modificazioni che gli impone con la sua azione sull'ambiente, E questa metafora ci dice che questo rapporto di scambio si sta inceppando, che c'è forse un processo di ingolfamento, che questa ipertrofia dell'immaginario è dovuta a una realtà i cui criteri di definizione e di costruzione stanno cambiando, forse troppo velocemente. Come aveva visto negli anni Trenta Lewis Mumford, e come avrebbe ripetuto nel 1970 Alvin Toffler. Ma l'immagine del mondo che diventa un gigantesco sistema nervoso richiama anche la concezione dei media di Marshall McLuhan, geniale sociologo tanto citato a sproposito quanto poco letto e meditato ("Ogni invenzione o tecnologia è un'estensione o un'autoamputazione del nostro corpo, che impone nuovi rapporti o nuovi equilibri tra gli altri organi e le altre estensioni del corpo. (...) In quanto estensione e accelerazione della vita sensoriale, ogni medium influenza contemporaneamente l'intero campo dei sensi ... "; Understanding Media [Gli strumenti del comunicare], p. 64-65).
Leggendo La mostre delle atrocità si capirà meglio perché Gibson e compagni considerano Ballard un precursore e un maestro. Io mi auguro anche che si capisca meglio la grandezza di questo scrittore, così complesso e fecondamente "incompleto" in ogni sua manifestazione.
Quando un'opera resiste così splendidamente ai decenni che le si accumulano sulle spalle, è lecito dire che ci troviamo di fronte a una vera scrittura, e non alle pappette preconfezionate o alle lamentazioni della memoria.
Certo, La mostra delle atrocità è un esempio splendente e lampante, denso ma anche (perché no?) divertente, di una scrittura autenticamente cosmopolita, che attinge la sua forza da uno sguardo impietoso e disincantato sulle tendenze unificanti della cultura planetaria: scrittura antropologica quante altre mai, perciò, di un’antropologia reale e non della finta antropologia del recupero delle "tradizioni nazionali", fantastiche o no che siano.
L'inglese Ballard, nato a Shanghai e abitante a Shepperton, London, non parla di gnomi o elfi celtici né di contadini del Wiltshire, ma delle esperienze fondamentali dell'uomo contemporaneo, Non sarà così, ma a rigor di logica la pubblicazione di The Atrocity Ehxibition dovrebbe contribuire anche a togliere la muffa al noiosissimo dibattito sulla "fantascienza nazionale", finora polarizzato tra le posizioni nazional-retrograde alla De Turris e l'idolatria del mercato di Urania.
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