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Sole giallo


di Guido Almansi


Lo scrittore J.G. Ballard, autore di alcuni tra i più bei romanzi di fantascienza degli ultimi venti anni, è nato a Shangai e ha passato parte della sua infanzia, tra il 1942 e il 1945, in un campo di concentramento giapponese in Cina, separato dai genitori. Nel 1984, più di quarant'anni dopo Pearl Harbour e l'invasione giapponese, Ballard ha finto di rinunciare alla fantascienza per scrivere un romanzo autobiografico, e ha finito, invece, per scrivere il suo più bel romanzo fantascientifico: L'Impero del Sole (Rizzoli, pagg. 325, lire 22.000), da molti giudicato il primo grande romanzo sulla seconda guerra mondiale che la letteratura inglese abbia prodotto.

Il rapporto fra fantascienza e romanzo della realtà non è affatto situato lungo la linea di confine fra «escapismo» c impegno, fra fantasia e realismo, non per niente alcuni tra i più significativi scrittori di lingua inglese degli ultimi anni, da Doris Lessing a Thomas Pynchon a Kurt Vonnegut, operano a cavallo fra questi generi letterari: e forse oggi dovremmo rileggere la fantascienza di Ballard alla luce del l’Impero del Sole, così come leggiamo questo straordinario romanzo alla luce dei suoi romanzi più «immaginativi». Ma nessuna immaginazione può competere con quel fuoco d’artificio di invenzioni incredibili che è la realtà.

Jim, il ragazzino protagonista del romanzo (che rappresenta l'autore giovinetto) segnato da una feroce volontà di sopravvivenza e da una carica di energia che lo costringe a resistere alle terribili vicissitudini della guerra e della prigionia, legge in un momento di relativo ozio Attraverso lo specchio di Lewis Carroll (la seconda parte di Alice): «un mondo confortevole molto meno strano di quello che lui stava imparando a conoscere».

La Cina, e in particolare Shangai, e ancora di più il quartiere internazionale, lo Stato dentro lo Stato imposto alla Cina nel 1937, è un luogo forse più strano di ogni descrizione extragalattica: un mondo in cui regna il disordine più totale, tranne che nei rapporti tra europei e cinesi, Fino a Pearl Harbour questi rapporti rimangono precisi, perché basati su un rituale di prevaricazione e di violenza. Per preservare l'ordine fittizio della comunità internazionale da quel mare di caos che è Shangai, in quell'oceano di caos che è la Cina, bisogna imporre regole strettissime: si deve fingere che le centina di milioni di cinesi non esistano, e che le loro vite non contino.

Jim, figlio di una famiglia di ricchi imprenditori, viene portato in giro in una Packard da un autista che usa la frusta per scacciare i ragazzini che si aggrappano all’automobile gridando "No mama no papa no whisky soda", e che passa con disinvoltura, con le ruote della sua macchina americana, sul piede di un vecchio mendicante il quale, accucciato per terra, ha appena la forza di chiedere la carità scuotendo la scatoletta di latta di sigarette Craven A «come un fumatore che ha deciso di smettere il suo vizio». Nei primi capitoli del romanzo Shangai appare come una metropoli pressata da una morsa gigantesca, in cui esistono troppe macchine, troppi risciò, troppi coolies, troppe puttane, troppi morti, troppa immondizia, troppa indifferenza. E intanto arrivano nugoli di altri cinesi, migliaia e migliaia, "spazzati via da eserciti in conflitto come granelli di polvere presi tra due ramazze che avanzano in direzione opposta".

Tutto questo finisce (in un senso) ed esplode (in un altro) con Pearl Harbour, quando Shangai trova la sua vera vocazione: la guerra, «Le guerre invigorivano sempre città, acceleravano il polso delle sue strade congestionate. Persino i morti ai bordi della strada sembravano più vivaci». Jim si trova separato dai genitori, in un ambiente che si è completamente trasformato nello spazio di poche ore. Forse la guerra l'ha iniziata lui stesso, per sbaglio, fingendo di fare segnalazioni ottiche dal balcone di casa sua a una lancia giapponese in assetto di guerra, giù nel porto. Le governanti cinesi, che lo avevano accudito con tanta tenerezza, si vendicano di una oppressione secolare dandogli una sberla che lo lascia intontito fisicamente e psicologicamente. Che cosa sta succedendo?

Solo e affamato, il ragazzo trascorre qualche settimana negli appartamenti abbandonati del quartiere internazionale, nutrendosi di cioccolatini, di noccioline, di acqua di seltz, di ciliegine per i cocktails che trova nelle dispense. La grande festa di Shangai continua ancora per un po’, ma anche quel cibo e quel liquido si esauriscono (Jim finisce per bere il liquore dei cioccolatini per dissetarsi), e il ragazzo cerca disperatamente di darsi prigioniero ai giapponesi; ma è così difficile! Come si fa ad arrendersi?

In questi tentativi di autoimprigionarsi, Jim corre rischi terribili: vagabondi sono pronti ad amputargli una mano per rubargli l'orologio; marinai americani che vivono nascosti vorrebbero ucciderlo per strappargli un dente d'oro di bocca (per fortuna, i suoi denti sono ancora sani), sempre che non intendano «mangiarlo» per placare la loro fame.

La guerra è una vera guerra, quindi senza bandiere, senza eroismo, senza patriottismo: una guerra seria in cui non ci sono né vinti, né vincitori, né nemici. Semmai il solo nemico è la morte che prima di Pearl Harbour era impegnata soprattutto con la popolazione locale, ma ora sta estendendo la sua area di azione. Per sfuggirle, Jim riesce alla fine, fortunosamente, a entrare in un campo di prigionia dove tutti muoiono tranquillamente di fame. E lì, in quella spietata università della vita che è il campo di concentramento, il ragazzo sopravvive per grazia di sgradevoli atti di carità fattigli da personaggi odiosi, crudeli, spietati che lo sfruttano ma allo stesso tempo lo mantengono in vita con una buccia di patata, un piccolo mango, una manciata di riso rancido, il consiglio di mangiare gli scarafaggini che infestano il riso, perché contengono proteine.

Nella seconda parte che descrive la vita nel campo di Lunghua, L'Impero del Sole sembra adeguarsi a modelli di racconto già conosciuti attraverso i testi concentrazionari europei. Nel descrivere la fame di Jim, Ballard imita altre fami, vissute negli anni Quaranta e descritte negli gli anni Cinquanta dai vissuti dei lager.

In queste pagine, il romanzo sembra calare di tono, quando a Lunghua e a Jim càpita qualcosa di peggio della guerra: la pace, dopo Hiroshima, e la disfatta dell'esercito giapponese.

La guerra rappresenta un margine di sicurezza finché i giapponese controllano il campo e assicurano che un minimo di razioni vengano distribuite ogni giorno ai prigionieri. Ma quando i giapponesi partono, non rimane più nessuna parvenza di ordine, di assistenza, di organizzazione sociale. Jim (e con lui migliaia di prigionieri) si trova solo in una lotta per la sopravvivenza in una città in cui ci sono già sei milioni dì cinesi al margine della morte per fame.

Il ragazzo sogna di ritornare a quel tempo felice, nel 1943, quando gli americani erano ancora alle Hawaii e non disturbavano la placida vita di Lunghua.

Ma la fortuna lo assiste: riesce a resistere ai disastri della pace come a quelli della guerra e finisce per ritrovare i suoi genitori.

La pagina finale del romanzo lo vede sulla nave che lo porterà in Europa, lontano da «questa città terribile», Shangai.

Ho cercato di dare un'idea dell'intensità delle avventure di Jim, e dell'intensità con cui queste avventure sono trascritte (o ricordate) da Ballard. L'Impero del Sole è un libro di travolgente e dolorosa leggibilità: non si può smettere di leggerlo, e non si può smettere di essere imbarazzati, e a tratti disgustati, dalla lettura. Ideologicamente, si potrebbe vedere nel romanzo una linea speculativa che risale alla tradizione dell'ingenuo, del candido che osserva il mondo da un osservatorio di privilegiata innocenza, l’infanzia. Ma non è così, mi sembra: Jim non capisce la guerra perché è ancora un bambino, e non capisce la guerra perché la guerra è incomprensibile. Forse qualcuno, nascosto chissà dove, sa che cosa la guerra significa; ma nessuno ha mai incontrato quel «qualcuno», nessuno è mai stato in quel «chissà dove». L'Impero del Sole è un vero romanzo di guerra, quindi un romanzo di fantascienza, perché solo uno scrittore dalla fantasia sconfinata può avere inventato una cosa così assurda come una guerra.






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