Il piccolo schermo può aiutare il grande
di Oreste del Buono
A volte si pensa che la televisione sia nemicissima del cinema, nella sua ingordigia di annetterselo tutto.
Non sempre è vero. Per esempio, ci è capitato domenica alle 12 di vedere e sentire su Italia l la replica di un ottimo "Speciale Impero del Sole", un dietro le quinte del film di Steven Spielberg tratto dall'omonimo romanzo di James G. Ballard.
Così abbiamo avuto l'emozione (ma, sì, proprio l'emozione, il bello e il brutto della nostra vita è che siamo eternamente dei fans) di assistere a una scambio di opinioni tra due nostri idoli: il sensazionale regista americano e l'affascinante scrittore inglese. Le opinioni saranno state scambiate tra i due per far propaganda al film, a noi sono risultate preziose come un supplemento di informazioni e un aiuto a correggere un poco il modo sufficiente e supponente che hanno usato alcuni critici cinematografici italiani a proposito de "L'Impero del Sole".
Anche critici che apprezziamo molto come Tullio Kezich, che dal Festival di Berlino ne scrisse come di un film fascistoide tratto dal libro di «un tale Ballard». E oggi torna sull'argomento dicendo che, beh, Ballard forse non andava definito, o meglio indefinito come tale perché non è giusto chiamar così nessuno: comunque, lui ha provato a cercare il romanzo nelle librerie "ma per ora pare che nessuno l'abbia tradotto". A ogni modo, il film che ne è stato tratto è militarista, nonostante o forse grazie "la capacità stregonesca di Spielberg".
Per la verità, ahimé, "L'Impero del Sole" è già stato tradotto e pubblicato qui da noi dalla Rizzoli, che non è una piccola casa editrice. E, quanto a Spielberg, Kezich non ha mai nascosto la notevole antipatia che prova per lui sin dal secondo film. «Apprendiamo che il giovane cineasta si considera in corso solo con i coetanei. come Marty Scorsese o George Lucas né sente di dovere alcunché ai maestri del passato come Wellman e Hawks. Sarà», scriveva nel 1975 a proposito di «Sugarland Express», trovandolo un'imitazione in tono minore de "L'asso nella manica" di Billy Wilder. «Lo squalo» lo ha giudicato «una fricassea buona per tutti gli usi». «I predatori dell'Arca perduta» lo ha liquidato come «un giocattolo gigante dove l'abilità ha il meglio sull'ispirazione e il divertimento è tanto programmato da suscitare una punta di noia». E così via.
Ognuno ha diritto alle proprie opinioni, d'accordo. Ma vorremmo proprio sapere perché «L'Impero del Sole» di James G. Ballard o di Steven Spielberg sia una storia militarista e fascistoide, perché si occupa di gente che vive nella guerra. Secondo questo metro di giudizio (fatte le debite proporzioni, per carità) «Guerra e pace» di Lev Tolstoj sarebbe una storia militarista e nazionalista.
Tutti i romanzi, tutti i film che parlano di gente che vive nella guerra corrono lo stesso pericolo, ma devono correrlo perché, purtroppo, la guerra continua a esserci e non si può ignorarla. Odiare la guerra non vuol dire rassegnarsi alla vigliaccheria quando ci colpisce senza nostra colpa. Il bambino inglese prigioniero dei giapponesi in Cina ne «L'Impero del Sole», per andare avanti nei tormenti di un lager, ha bisogno di avere un modello, un eroe, un padre. Se lo inventa, sbagliando, ma è la stessa ostinazione a credere in qualcuno a farlo resistere. Ha resistito. Non è diventato un militarista, né tanto meno un fascistoide, lo abbiamo visto, lo abbiamo sentito parlare nello "Speciale Impero del Sole", rievocare il ricordo della prigionia subita e vinta, discutere dell'orrore della guerra e dell'impegno che abbiamo contro le minacce del futuro. Come autore di fantascienza, Ballard racconta pericoli, catastrofi a venire, apocalissi certe, se il mondo non cambierà strada. Su «L'Impero del Sole» è la televisione a informarci più che la critica cinematografica.
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