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Ballard, l'Apocalisse che nasce dall'esperienza


di Filippo La Porta


I nostri narratori contemporanei possono raccontarci anche l'orrore e perfino l'apocalisse, ma sembra che queste cose non li riguardino mai!

Il che incide sulla qualità delle loro narrazioni.

Spostiamoci di latitudine. L'ultimo romanzo di J.G. Ballard, Regno a venire (Feltrinelli, pp.293, € 17.50), probabilmente non è un'opera memorabile. Nonostante il contenuto (una allegoria terminale dell'Occidente) ha una struttura piuttosto tradizionale. Si svolge nell'hinterland londinese dominato da un gigantesco centro commerciale, dove le persone vivono «in un eterno presente fatto di compere», e dove come reazione alla noia dello shopping prospera la violenza razziale.

L'invettiva contro il consumismo non è un tema del tutto inedito. Perché colpisce tanto il lettore? Per la ragione che Ballard, come il suo protagonista - un pubblicitario che indaga sulla morte del padre nello shopping mall- è emotivamente coinvolto dalla vicenda. Lo scrittore inglese appare sempre angosciato da ciò che narra. E questo immerge la scrittura in una «musica» grave, un po’ ipnotica. In passato ci ha mostrato varie catastrofi, e anche alcuni «usi» possibili della catastrofe stessa. Ma lui ne era terrorizzato! Quando ci dice che la libertà tende a esprimersi perlopiù in forme psicopatologiche è lui per primo a provarne una vertigine di smarrimento.

Perché Ballard ci racconta proprio di ciò che lo angoscia? Per la ragione che deve rendere conto a lettori che chiedono descrizioni partecipi e oneste del mondo in cui abitano. La letteratura non viene usata solo come consumo tra gli altri, ma è ancora una interrogazione su di sé, una forma di conoscenza privilegiata. Tutto il contrario nel nostro Paese, dove le diagnosi più apocalittiche diventano un giochino mondano. La buia psicosi di Philip Dick si presta da noi a citazioni salottiere. E così le allucinate distopie di Ballard si traducono in epigrafi per qualche frivolo saggio di sociologia urbana. La critica situazionista alla società-spettacolo si risolve nella sua apologia.

Debord è prefato da Freccero. Forse solo in Italia la placida adesione all'esistente si traveste da antagonismo molto spettacolare.

Non è che i nostri romanzi ignorino la realtà. Tutt'altro. Anzi, pullulano di temi sociali, descrivono ambienti urbani, perlopiù degradati. Nell'ultimo romanzo di Ammaniti (pur incompreso dalla critica) il paesaggio si riempie di capannoni industriali, viadotti, ipermercati dove la violenza sociale è lì lì per implodere ... Ogni giorno un centinaio di noir o simil-noir ci comunicano che la nostra società è corrotta è invivibile. Ma è come se gli scrittori italiani non fossero mai coinvolti da ciò che raccontano, è come se vedessero sempre una fiction televisiva. E proprio a questo aspirano i loro lettori, che si vogliono spettatori del naufragio, eccitati voyeur della fine del mondo. Un po’ come certi esponenti del nostro ceto politico, che ci ricordano le emergenze nazionali, ma come se abitassero in un altro Paese.

Come se la realtà rappresentata in una pagina di romanzo fosse solo uno dei molti scenari a disposizione, una quinta teatrale da cui si può uscire quando vogliamo.






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