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Dai mostri ci salveranno i ragazzini


di Emiliano Morreale


"Babadook" è l'erede di un filone horror che fa scaturire la paura dalla forza realistica del cinema, un filone che mostra poco ed evoca fantasmi dalle pieghe del quotidiano: dai film degli anni '40 prodotti da Val Lewton ("Il bacio della pantera") ai grandi horror di Polanski (evidenti in questo film i modelli di "Repulsion" e "Rosernary's Baby"). Viene ovvio, poi, pensare che la credibilità del film, con protagonista una madre in crisi, derivi anche dall'essere stato scritto e diretto da una donna, l'esordiente Jennifer Kent. Dotata come regista e forse soprattutto come sceneggiatrice, spiazza con almeno due-tre giravolte le aspettative dello spettatore.

Il marito di Amelia (Essie Davis) è morto sei anni fa, accompagnandola a partorire (un padre morto di parto, insomma, che è già una curiosa trovata). Suo figlio Sam è un caratteriale violento ai limiti della psicosi, e i due, madre e figlio, vivono da emarginati all'interno della piccola borghesia suburbana. Quando Sam trova in casa il macabro libro pop-up, con una filastrocca che parla del mostro Babadook, ne è ossessionato e sembra precipitare in una deriva folle. Ma poi le ultime pagine del volume, bianche, si riempiono, arrivano telefonate minacciose e fenomeni inspiegabili: il Babadook forse esiste davvero, e minaccia che potrebbe prendere possesso di Amelia, dando forma fisica, letterale, ai suoi sentimenti ambivalenti verso il figlio. I rapporti tra i personaggi cambiano, il bambino adesso è un fragilissimo eroe. E le sorprese non finiscono qui.

Lo psicoanalista Bruno Bettelheim ci spiegò decenni fa la necessità per i bambini di confrontarsi con fiabe spaventose, e l'importanza dei genitori come tramiti: per imparare a convivere con i mostri, attraverso il percorso simbolico delle fiabe. Ma cosa succede se il tramite crolla, se il genitore è egli stesso possibile preda dei mostri? Il Babadook allora dilaga, diventa il contenitore di incubi, rabbie, frustrazioni, solitudini. In questa chiave il film di Kent, oltre che un efficace meccanismo pauroso, risulta un'acuta parabola film sulla famiglia e la maternità. I meccanismi dell'horror generano, come a volte accade, metafore eloquenti, e la regista ha buon gioco a ricordarci una genealogia che da Méliès e Lon Chaney arriva a Mario Bava. E il finale del film, d'altronde, chiosa con una morale saggia e "pedagogica".






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