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Le regole geniali di Ridley Scott nell'odissea del naufrago stellare


di Paolo Mereghetti


Era dai tempi di American Gangster che Ridley Scott non indovinava un film: la professionalità non veniva mai meno ma i risultati facevano rimpiangere il regista del passato. Possibile che Prometheus o Exodus fossero farina dello stesso sacco da cui erano usciti Hannibal, Thelma & Louise, Black Rain e soprattutto il terzetto di titoli con cui si era aperto trionfalmente la strada: I duellanti, Alien e Blade Runner? Possibile che avesse perso la mano?

Anche Sopravvissuto - The Martian poteva sollevare qualche dubbio preventivo: un film di 141 minuti con un solo protagonista, un astronauta abbandonato su un pianeta deserto che può comunicare solo con se stesso ... E invece le due ore e venti di proiezione scivolano via senza intoppi, mentre i momenti di suspense si alternano all'ironia (sì, si può ridere anche soli nello spazio), e lo spettatore si ritrova a parteggiare per il povero naufrago stellare mentre Ridley Scott allestisce uno spettacolo degno della sua fama.

Il film comincia su Marte, in un futuro non molto lontano; una missione di sei astronauti deve raccogliere campioni di terreno quando una tempesta spaziale di inusitata potenza obbliga il gruppo a ripartire.

Ma nella fuga, un'antenna staccatasi dal suo sostegno finisce per precipitare addosso a uno degli astronauti, lacerandogli la tuta. Il che convince gli altri cinque della sua morte. E invece Mark Watney (interpretato da Matt Damon) ha solo perso i sensi perché il ferro che gli ha causato la ferita e lacerato la tuta ha finito per fare anche da involontario tappo, mantenendo costante la pressurizzazione del corpo e salvandogli la vita.

Anche se trovarsi vivo ma solo su un pianeta deserto non è una delle prospettive più augurabili.

Comunque l'hub che aveva ospitato la missione per i primi giorni diventa un rifugio confortevole, con riserve d'acqua e di cibo sufficienti a lasciargli qualche tempo per pensare al da farsi. E Mark comincia ad ingegnarsi, mettendo a frutto le sue conoscenze biologiche: riesce a produrre acqua, a coltivare patate (sfruttando come concime i propri escrementi) e anche a ritrovare una primitiva ricetrasmittente fotografica (è addirittura del 1996 e funziona ancora, come si addice alla tecnologia di una volta) con cui finalmente riesce a mettersi in contatto con la Nasa per dimostrare che è ancora vivo.

I problemi però non sono finiti, anzi cominciano adesso, perché la «coltivazione» di patate subisce i contraccolpi di un'altra tempesta spaziale e i tempi di comunicazione tra la Terra e Marte sono piuttosto lunghi per una qualsiasi tradizionale manovra di salvataggio. Bisogna trovare strade inedite ed è qui che la sceneggiatura di Drew Goddar (e il romanzo di Andy Weir da cui è tratta) mettono in campo tutte le loro abilità. Aiutati in questo da Ridley Scott che inizia a giocare su piani diversi: il naufrago su Marte, i vertici della Nasa (guidati da Jeff Daniels, Sean Bean e Chiwetel Ejiofor) e l'equipaggio di cui faceva parte anche Mark e che sta tornando verso la Terra, guidato da Jessica Chastain.

È qui che torna fuori la «vecchia» mano di Scott, nell'assemblea spaziale con cui la Chastain e i suoi compagni decidono di «disertare», nel dialogo allusivo con cui il giovane Purnell (Donald Glover) tiene a bada il suo curioso capo, nel gioco tra volto ufficiale e volto privato che Daniels deve continuamente gestire. E naturalmente nel rendere i monologhi di Mark, che registra tutto quello che fa, il più possibile sorprendenti e accattivanti.

Chi conosce un po’ i film di Ridley Scott e le regole d'oro delle major hollywoodiane (qui distribuisce la Fox) non farà fatica ad immaginare come andrà a finire e a capire perché a un certo momento entrano in scena anche i cinesi buoni (sulla cui marea di sale cinematografiche gli americani hanno messo da tempo i propri avidissimi occhi). Ma più dell'odissea spaziale di Matt Damon, colpisce l'atto di fiducia nell'homo americanus, capace di non darsi mai per vinto anche nelle situazioni più disperate, ieri pioniere nella prateria, come domani nel cielo. E incuriosisce l'elogio delle tecnologie «obsolete», ancora capaci però di servire all'occasione.

Quasi a suggerirei che il nostro futuro si realizzerà senza dimenticare l'uomo e quello che ha fatto nel passato.






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