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Tevis, un alieno arriva tra noi. E piange


di Sandro Modeo


Nato lo stesso anno di Philip K. Dick (1928) e morto due anni dopo (1984), Walter Stone Tevis non ha ancora goduto dello stesso riscatto critico-mediatico. Eppure è autore di almeno due capolavori: Lo spaccone ('59) e L'uomo che cadde sulla terra ('63), portati sullo schermo il primo da Robert Rossen, il secondo da Nicholas Roeg.

Introvabile da tempo, L'uomo che cadde sulla terra si fonda, in particolare, su una metafora poetica così potente e necessaria da estendere la propria luce dolorosa a tutti i temi del libro.

Raccontando infatti la discesa di un alieno sul nostro pianeta (dovuta al duplice scopo di reperire energie per il proprio, agonizzante, e di prevenire i nostri disastri atomici), Tevis non si limita a disegnare nel problematico travestimento-adattamento del suo protagonista una trasposizione dell'estraneità dell'uomo stesso ai doveri della recita sociale e al silenzio dell'universo: non si limita, cioè, ad attualizzare il motivo gnostico dello «straniero», che pure ha sequenze-culto come quella in cui l'alieno specchia il proprio corpo lungo e fragile, si toglie il maquillage (unghie finte, lobi artificiali, capezzoli adesivi), bisbiglia qualcosa nella propria lingua - e piange.

Tevis fa molto di più: dando a questo disadattamento sintomi panico-depressivi (vomito e svenimenti) lo rende sintonico alle malattie dei nostri anni; denunciando l'amoralismo mortuario di certi manager e scienziati (incaricati, con Cia e Fbi, di studiare il caso e di gestirlo elettoralmente) mostra come dietro il presunto cinismo del potere si apra la voragine dell'ottusità cognitiva; e distendendo il racconto in una natura del Kentucky per lo più invernale/primaverile - ed emergente per frame improvvisi come quelli degli uccelli solcanti l'azzurro di cieli digitali o dei boschi.sfreccianti ai vetri della monorotaia - esprime un intenso, antiretorico lamento ecologista.






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