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Il gioco finale di Katniss


di Paolo Mereghetti


Sempre imparare dai maestri, soprattutto quelli capaci di non farsi accecare dal successo. Per arrivare a sette, George Lucas ha fatto passare quasi quarant'anni da Guerre stellari. E spesso cedendo lo scettro della regia. In quattro anni, Hunger Games ha spremuto fino all'impossibile la trilogia di Suzanne Collins, dividendo l'ultimo capitolo per aumentare gli incassi. E gli effetti si sono visti: se i primi due episodi dimostravano una certa capacità di evitare le trappole tipiche della retorica hollywoodiana, offrendo agli spettatori più giovani uno spettacolo derivativo (guardare Battle Royale di Fukasaku e L'implacabile di Paul Michael Glaser. Rileggere Orwell e Philip K. Dick) ma evitando di ribadire nei dialoghi quello che le immagini facevano scoprire, l'ultima avventura - per giunta diluita in due film - ha finito per trovarsi a corto di idee.

Ormai i tredici distretti del regno di Panem hanno capito che l'unione fa la forza e si sono ribellati alla dittatura di Snow (Donald Sutherland), il supremo maestro di manipolazione e disinformazione. La fine di Capitol City è questione di giorni se non di ore, nonostante le mille trappole che i più ardimentosi dei nostri si troveranno sulla strada e che servono per sfoltire la pattuglia mandata avanti per eliminare Snow.

Quella missione avrebbe anche compiti di contro-propaganda, filmando l'eroina Katniss Everdeen (Jennifer Lawrence) che ne fa parte, ma i ribelli sembrano incapaci di eguagliare il livello di propaganda mediatica del nemico.

Piuttosto il pubblico dovrebbe appassionarsi al braccio di ferro sentimentale che oppone i due «spasimanti» storici di Katniss - Peeta (Josh Hutcherson, che nel film precedente era stato sottoposto a un lavaggio del cervello di cui ancora paga le conseguenze) e Gale (Liam Hemsworth) - anche loro nel commando di cui sopra. Ma Katniss non sembra capace di scegliere.

Lo farà solo alla fine, quando il film sembra ricordarsi della storia di Giulio Cesare, anche qui senza tirarla troppo per le lunghe con dichiarazioni d'intenti e discorsi. La qual cosa è - insieme all'idea di mettere un'eroina dove di solito ci sono degli uomini: a fare la guerra - la vera idea della saga. Perché permette a un pubblico di adolescenti di. «scoprire» da soli quello che genitori e scuole dovrebbero aver loro già segnato, e cioè la manipolazione dei media, l'ingiustizia delle classi, le bugie del potere, le trappole della comunicazione.

Tutte cose che quotidianamente il pubblico sembra disposto a digerire, salvo «decodificarle» e «criticarle» quando la loro messa in discussione diventa a sua volta spettacolo, attraverso un nuovo o più avvincente tipo di narrazione.

Un cammino su cui altri film si sono avventurati con più coraggio, almeno dai tempi di Metropolis, e che questa seconda parte del Canto della rivolta racconta con poca inventiva, rubacchiando qua e là (gli ibridi che infestano le fogne vengono dritti da The Descent - Discesa nelle tenebre), sfruttando la sua ricchezza produttiva (le scenografie di Philip Messina) ma finendo per mortificare in un eterno broncio pensoso anche il volto seducente della Lawrence.






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