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Un mutante alla ricerca del Graal dopo lo scoppio della superbomba


di Carlo Formenti


"Deus Irae" è un caso atipico nell’opera di Dick: perché fu scritto a quattro mani con Roger Zelazny, perché dal concepimento (1964) all'uscita (1976) trascorsero dodici anni, e infine perché esaspera il gusto dickiano del grottesco. La sensazione è che il più giovane Zelazny - scrittore di grande talento attratto, come Dick, da speculazioni teologiche e mondi a incastro - svolga qui il ruolo del garzone di bottega, appiattendosi fino alla mimesi sullo stile dell'amico-maestro.

I temi sono fra i più tipici dell’immaginario dickiano: l’umanità regredita del dopobomba, il diffondersi di culti religiosi demenziali, la convivenza fra genialità artistica e povertà di spirito. Ingredienti che, come scrive Carlo Pagetti nell'introduzione, appaiono qui incastonati in uno scenario ricco di situazioni surreali e dialoghi al limite del nonsense, fra giochi linguistici degni di «Alice nel Paese delle Meraviglie» e spunti satirici che evocano il «Dottor Stranamore».

In un'America devastata dalla guerra atomica e piena di mutanti dove rottami di macchine da guerra «intelligenti» e animali «umanizzati» scambiano discorsi privi di senso, la gente trova consolazione in una Chiesa che, abbandonata la fede cristiana, adora un Deus Irae dispensatore di morte, cioè dell'unica speranza di ottenere la liberazione definitiva dal male.

Incarnazione vivente del Dio è Lufteufel, l'inventore della superbomba che ha provocato la catastrofe: quindi la Chiesa spinge l'artista Tibor a mettersi in cerca di Luftenfel per memorizzare il volto e riprodurne l'immagine in un affresco. Ma il povero Tibor è uno storpio, un mutante senza braccia né gambe che sopravvive grazie a protesi meccaniche e si sposta su un carretto trainato da una mucca, così il pellegrinaggio si trasforma in tragicomica odissea, una versione derisoria della ricerca del Graal che ripropone il tema dickiano d'una ricerca della verità inesorabilmente votata allo scacco.






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