Il valzer dei delitti senz'anima
di Tullio Kezich
Ogni volta che assisto a un film con delitti plurimi mi dispongo a enumerare i morti ammazzati e ogni volta perdo il conto. Figuratevi se non mi è successo con Nonhosonno (tutta una parola), dove Dario Argento (e per lui il solito serial killer la cui identità si scopre solo alla fine) di cadaveri ne scodella in soprannumero. Tornando al giallo dopo una lunga permanenza nell'horror, bene ambientato nella congeniale cornice torinese, Dario si è impegnato a rispettare le regole della tradizione e ha perfino scandito la catena dei delitti su una cantilena infantile come faceva Agatha Christie. Però il nostro è un cavallo che continuamente rompe l'andatura, l'unica regola che riesce a rispettare è infatti un'antiregola: la licenza di sconfinare dalle chiuse geometrie dell'intreccio classico.
Ciò che davvero interessa al regista non sono la faccenda, né i personaggi, né la curiosità di scoprire l'assassino, ma le iterative situazioni di minaccia incombente con finale al sangue. E qui, proprio all'inizio del film. ce n'è una che entrerà nelle antologie: la fuga di una vittima designata, come al solito una donna, su e giù lungo i corridoi vuoti di un treno in corsa nella notte. Un brano di alta scuola che Hitchcock avrebbe firmato volentieri: e che - occorre precisarlo? - si conclude con un cadavere. Anzi, due.
Tutto preso dalle acrobazie visuali (complice l'eccellente operatore Ronnie Taylor) Argento non va troppo per il sottile riguardo alla plausibilità di ciò che racconta. Sicché commette l'errore di riferirsi sempre a un personaggio che quasi non si vede, morto e sepolto (si fa per dire) da 17 anni: il Nano, presunto autore e in realtà vittima di alcuni delitti commessi a Torino nel 1983.
Ai giorni nostri l'insonne e ormai smemorato Max von Sydow, il poliziotto che lo incriminò, sente crescere il rimorso dell'errore commesso e da pensionato porta avanti una polemica contro i giovani inquirenti contrapponendo alle loro tecnologie l'antico metodo intuitivo. Fra gli altri protagonisti, in una stravagante costruzione drammaturgica, Stefano Dionisi entra dopo 40 minuti, Chiara Caselli dopo 50, quest'ultima senza lasciare traccia: mentre Rossella Falk e Gabriele Lavia, comprimari di lusso, restano nei limiti di personaggini scritti con la matita.
Un indizio per la soluzione del mistero viene buttato là in maniera sorniona, ma attenti: è una falsa pista. Nel finale, quando cade la maschera del mostro, succede invece che la delusione e l'incredulità hanno la meglio sulla sorpresa. Un tipo di infortunio sul quale in verità scivolano anche i giallisti ortodossi: la soluzione è sempre inferiore alla premessa.
Per confermare che l'Argento vivo di Nonhosonno sta tutto nelle immagini, che guadagnerebbero nella loro impeccabile classicità a scorrere sullo schermo accompagnate solo dalla musica dei «Goblins». Ovvero senza i brutti dialoghi che fanno scadere il livello del film.
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