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di Mirko Tavosanis


Che il movimento cyberpunk letterario sia ormai giunto alla sua fine naturale (poco conta che il suo momento magico qui in Italia sia adesso) è circostanza nota ed accettata: il suo massimo teorico, Bruce Sterling, ha ripetuto più volte il concetto, che adesso si suppone sia penetrato anche nelle capocce più dure. Quello che però non è altrettanto autoevidente è il ruolo che, a mio parere, ha avuto in questo trapasso un romanzo "difficile" come The Difference Engine, uscito nel 1990 e firmato dalla coppia Gibson-Sterling, dal padre cioè del cyberpunk e dal suo maggior profeta. Per spiegare la scarsità di commenti italiani, il fatto che l'opera non sia stata ancora tradotta è ovviamente fondamentale (tanto più in quanto va ad aggiungersi ad un disinteresse generalizzato nei confronti della lettura: di fantascienza se ne ciarla tanto, ma, come per ogni altra cosa, anche gli "esperti" ne leggono pochissima). Più sorprendente è invece la perplessità di critici stranieri - dei cui lavori si offre qui un paio di esempi. Critici stranieri che il libro l'hanno letto e discusso, ma che mi sembra abbiano mancato di collegarlo alle dinamiche del cyberpunk; ed alla chiusura del movimento.

Il punto focale mi sembra allora questo: The Difference Engine porta ad una conclusione temi e stili del cyberpunk, e li conduce fino al loro esito estremo.

Innanzitutto per quanto riguarda l'interessa per l'economia. Come l'Ubik dickiano, questo libro è risalito all'epoca di un capitalismo in formazione, o meglio, di un capitalismo che - spinto dalla Macchina - ha preso direttamente il potere, senza delegare la conduzione diretta della società ad organi politici, sia pure pesantemente sotto il suo controllo. I Radicali Industriali dell'Inghilterra del primo ministro Byron sono quindi i diretti successori, o gli antenati, delle onnipotenti multinazionali descritte in ogni libro cyberpunk che si rispetti (e la prossima uscita dell'antologia Mirrorshades dovrebbe rendere il fatto evidente a tutti), e degli Investitori alieni di Sterling (ciclo Shaper/Mechanist), creature che hanno il commercio come sola ragione di vita. Ritorno alle origini, dunque, e chiarificazione definitiva.

Definitiva? Forse no. Cos'è questo capitale, che si aggira ormai autocosciente nelle pieghe del ciberspazio (mondo fatto a suo uso e consumo)? Forza positiva o negativa? Molti recensori d'accatto, qui da noi, hanno parlato degli orrori dell'avvenire cyberpunk, "che fanno impallidire anche il più ottimista dei futurologi."

Ben altrimenti stanno le cose. Con Gibson & C., l'oggetto tecnologico, la machina, il computer, riprende alla grande il posto di idolatrato protagonista che nella fantascienza degli ultimi anni era reso vacante. Hiroshima è stata uno dei grandi punti di svolta della FS: dopo di allora, la tecnologia ha cominciato a prendere un aspetto sempre più demoniaco (nella letteratura "vera" la svolta è comunque molto precedente - non dopo il 1914, in effetti, a parte isolate frange futuriste). Il cyberpunk non fa niente di meno che invertire questo cammino epocale, ricominciando tutto su una nuova base, ed uno dei nomi che il movimento si era autoattribuito agli inizi, quello di "radical hard sf", si adatta senza problemi alla tendenza descritta.

Dunque, da un lato contestazione dell'assetto capitalistico, dall'altro venerazione per tutto ciò che questo stesso assetto ha reso possibile sul piano tecnologico.

Discorso non nuovo. Anzi: "[la borghesia] per prima ha mostrato che cosa possa l'attività umana. Essa ha creato ben altre meraviglie che le piramidi d'Egitto, gli acquedotti romani e le cattedrali gotiche; essa ha fatto ben altre spedizioni che le migrazioni dei popoli e le crociate", dice il ben noto primo capitolo del Manifesto.

L'importante è notare come il cyberpunk abbia irreversibilmente assimilato, ormai, questi concetti come idee di sfondo. Per gli scrittori di cyberpunk, è ovvio che l'assetto del mondo tecnologico prossimo futuro sarà immodificabilmente capitalista. Prospettive di rovesciamento completo non ne esistono: si tratta di vivere all'interno della società che esiste, magari in strutture come le "democrazie economiche" descritte da Sterling in Islands in the Net, multinazionali controllate, per così dire, dal basso, dai loro stessi lavoratori, che contribuiscono a deciderne la politica e l'ideologia.

Tutto questo in The Difference Engine? Sì, ed anche di più. Il libro presenta anche una caratteristica narrativa fondamentale: ha quasi raggiunto una tridimensionalità effettiva. La trama, pur lineare (Conan Doyle è il nome che mi è venuto alla mente), viene praticamente sommersa dall'infinità di riferimenti e sfaccettature che costellano le pagine. Nelle pieghe dell'intreccio, figure e storie appaiono e scompaiono: il romanzo funziona esattamente come la Macchina descritta nell'enigmatico finale. E raggiunge quasi un "dialogismo" bachtiniano, pur se - e su questo ha ragione John Clute - l'opera non presenta contrapposizioni narrativamente realizzate, a parte il tentativo di rivolta proletaria, che, con gran soddisfazione del protagonista, viene stroncato nel sangue dai cannoni collegati alle macchine da calcolo. The Difference Engine resta dunque si l'inno della Macchina nella sua corsa gloriosa verso la trascendenza, gli uomini contano in effetti poco, ma quello che acquista una sorprendente consistenza è il mondo che li circonda.

Gibsos, in un'intervista apparsa sul n. 1 di Science Fiction Eye, ricordava come tempo addietro Sterling gli avesse parlato della sua idea di "scrivere un romanzo senza verbi, solo descrizioni"; ed aggiungeva, "ci è andato vicino con La matrice spezzata." The Difference Engine può essere considerato un secondo, ancor più riuscito tentativo - ammesso che buona parte del lavoro, come ritengo, vada ascritta a Sterling piuttosto che a Gibson.

Ed in dettaglio, cosa succede? Abbandonata la tecnica gibsoniana delle trame sovrapposte, eredità di un genio come Dick ma che il nostro canadese usava come semplice espediente narrativo - pallosissimo! - per descrivere l'ambiente dello Sprawl (curiosamente, nell'intervista appena citata ed in altre, Gibson ribadisce più volte la sua convinzione che "ciò che lo distingue da un autore di narrativa mainstream è la sua (di Gibson) capacità di metter su un intreccio funzionante" - mah, contento lui, contenti tutti), abbandonata, dicevo, questa tecnica, il libro si è rivolto verso un qualcosa che ricorda molto i lavori precedenti di Sterling, tutti - tutti i quattro romanzi: Oceano, The Artificial Kid, La matrice spezzata e Islands in the Net - costruiti su di un'unica figura di protagonista. Ma non esattamente alla stessa maniera. La sezione finale ("Modus"), con un'intertestualità bachtiniana, è composta da brandelli di discorsi, estratti di libri, manifesti, lettere, detriti vari che vanno ad insinuarsi nei tanti spazi lasciati liberi dalla trama. Una tecnica che potrebbe dar origine a sviluppi ben più interessanti di quelli visti finora.

A mio parere, dunque, questo non è "un" semplice romanzo: è "il" romanzo che chiude un filone ed indica nello stesso tempo una strada ancora tutta da percorrere.

La sua struttura lo renderà probabilmente odioso a molti, tanto quanto è stato stimolante per il sottoscritto, ma penso che quasi tutti gli vorranno riconoscere un buon numero di potenzialità. Che ci siano autori capaci poi di metterle a frutto, e di realizzare i primi grandi libri di una nuova fantascienza, beh, queste è un altro discorso ...






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