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Il futuro dei ragazzi venuti dal Brasile


di Costanza Rizzacasa D'Orsogna


C’è un giovane su una sedia a rotelle malridotta. «La nostra medicina - gli dicono - è assai avanzata. Potresti camminare di nuovo. Ma devi prima superare i test». C'è una stanza con 9 ragazzi. «Avete 3 minuti - avverte una voce fuori campo - per montare il maggior numero di cubi. Chi vincerà andrà al prossimo round». E poi violenze, manipolazioni. «L'avreste fatto anche voi - grida uno dei concorrenti agli altri- e lo farete».

Che cosa sei disposto a fare per una vita migliore, per la sopravvivenza? È quel che si chiede 3%, la prima serie di Netflix tutta prodotta in Brasile. Un thriller distopico, ambientato in un futuro prossimo di disuguaglianze estreme: il 3% del pianeta vive su un'isola di privilegi nell'Atlantico (The Offshore), il 97% in assoluta povertà su un continente allo sfacelo (The Inland). Un mondo post-apocalittico: disparità congenite, indigenti rassegnati. C'è una sola chance di migliorare la propria condizione: sottoporsi al Processo, il sistema attraverso cui la casta che controlla il pianeta si ripopola. Le regole impongono infatti che ogni anno, al compimento dei vent'anni, il continente mandi i propri figli ad affrontare test psicologici, emozionali e di valutazione atletica, sperando in un posto sull'isola. Solo il 3% - i meritevoli - riuscirà nell'impresa, gli altri vivranno di stenti. La lotta sarà all'ultimo sangue.

Disparità economiche e sociali

Diretta da César Charlone, l'uruguaiano candidato all'Oscar per la fotografia di City of God, e ispirata a una web serie in tre episodi del 2011, 3% è stata paragonata a Hunger Games ma è di più. Sfruttando i luoghi comuni della fantascienza, riflette sulle disparità tra ricchi e poveri in una società sempre più ingiusta: la nostra. E non a caso è ambientata a San Paolo, megalopoli brasiliana dalle disuguaglianze enormi. Ma potrebbe esserlo in molte altre città. A San Francisco, per esempio, da cui i big dell'hi-tech vorrebbero sfrattare i senzatetto. «È un talent di tagliagole improvvisati. Denuncia - spiega Charlone all'"Hollywood Reporter" - le dinamiche auto distruttive di una meritocrazia distorta». La lotta fra i protagonisti come specchio di un sistema dove ci si accoltella per una promozione: «Ognuno crea il proprio valore», esorta il capo del Processo, e «qualunque cosa vi accadrà ve lo sarete meritato». Così un ragazzo, disperato per l'eliminazione, si butta dal balcone. I disgraziati sono tali, agli occhi della casta, perché non all'altezza.

Torture psicologiche.

In 3% ci sono il mito della caverna di Platone, 1984 di George Orwell e Il mondo nuovo di Aldous Huxley (1932) ma anche serie tv come Lost e il cult britannico anni Sessanta Il prigioniero.

Tutto ha inizio quando decine di giovani, vestiti di stracci, arrivano ai cancelli di un complesso hi-tech, su un precipizio da cui guardare giù, verso la valle dei dannati.

All'interno, in quella che somiglia a una prigione, si svolge il Processo. Un interrogatorio spinge i candidati all'esaurimento, eliminandone a ripetizione. Chi si salva affronterà i round successivi, combattimenti inclusi. Ogni prova ruota attorno alla «teoria dei giochi», l'ambito matematico cui lavorò John Nash e che studia le decisioni di un soggetto in situazioni di conflitto o interazione strategica con altri. A volte, per arrivare primi, i candidati dovranno unire le forze; altre cospirare per far fuori uno del gruppo. Un episodio è ricalcato sull'esperimento carcerario di Stanford, lo studio psicologico condotto nel 1971 che esplora le derive del potere percepito, esplose in anni recenti con le torture di Abu Ghraib. C'è una variante del «dilemma del prigioniero», quando due donne, separatamente, sono informate che l'altra è una talpa di un gruppo terroristico, spingendole ad uccidersi a vicenda. Un nocciolo di resistenza, però, esiste: The Cause, che mira a sovvertire il sistema e riportare l'uguaglianza. «Non esistono politiche d'inclusione», viene intimato al disabile per testarne la determinazione. E a un'altra: «Sei eliminata. Ti metti a frignare?».

Ma anche il capo del Processo è oggetto di verifica. Perché tutti, in 3%, sono sotto esame, tutti facciamo parte del Processo.

Come un reality

È anche, 3%, una satira feroce sulla cultura dei reality, culla mediatica dei più bassi istinti. Dove la vittoria promette ai morti di fama una vita migliore - celebrità, status, guadagni - ma a scapito della propria umanità. Nodo fondamentale della serie è poi l'ambiguità. Il Processo «garantisce» che solo i migliori accedano all'Offshore ma il metro di giudizio dei burocrati, tirannici e bugiardi, è discutibile. Allo stesso modo, una serie di flashback scava in ogni episodio nel passato dei giovani, accelerando !'identificazione ma aumentandone la complessità: i più violenti saranno in parte assolti, i generosi si sveleranno più sinistri.

Utopia e oltre

Da Dave Eggers a Maze Runner, la narrativa distopica vive un momento di fortuna, e non a caso in una società sempre più adulterata, dove i rapporti personali perdono valore. La lotta per una vita migliore è il terreno comune di questi romanzi e serie tv che oltre a intrattenere vogliono essere da monito sul futuro che stiamo creando. 3% non è l'unica serie sulle diseguaglianze. Sempre nei giorni scorsi, sul canale americano SyFy, è partita Incorporated, prodotta da Matt Damon e Ben Affleck e ambientata nel 2074, in un pianeta devastato dai cambiamenti climatici, dove il potere è nelle mani di poche multinazionali. C'è la Red Zone, sudicia e poverissima, e la Green Zone, privilegiata. Ciò che colpisce, però, della ben più riuscita serie Netflix è che per tutta la durata del Processo i candidati non vedranno mai l'Offshore. Non sanno, cioè, se quanto si racconta dell'isola sia vero, se le aspettative siano giustificate: si attaccano al sogno di qualcosa del quale non hanno prove. Tutto ciò che sanno è d'essere disperati. Se vivi all'inferno, dicono, qualsiasi altro posto sarà un paradiso. Ma se non fosse così?






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