Fiaba con tanto fumo e poco Ariosto
di Giovanni Grazzini
«Fiaba pittorica» per ragazzi, e lavanda oculare per chi voglia purgarsi lo sguardo. Dove si racconta, in un Medioevo reinventato sulle pendici dell’Etna, di come la vergine Bradamante, crociata in Terrasanta, s'invaghisca del guerriero saracino Ruggero, e la sorella di costui, l'appetitosa Isabella, finisca fra le braccia del cristiano Rolando. Senza alcun rispetto, come è giusto nelle favole, dello storico e del verosimile, con un vago ricordo del mondo ariostesco e l'ambizione di realizzare un colosso italiano (coprodotto con gli USA) che ripeta l'invito a fare l'amore anziché la guerra, slacci la fantasia popolare, e sia esportabile in tutto il mondo rivendicando le virtù del cinema spettacolare per grande schermo.
Sicché niente che impensierisca ma un bel lavoro sulle immagini, appunto perché, l’occhio si ristori anche con qualche riferimento ai classici dell'arte italiana inclini all'astretto, e tutte le suggestioni che possono derivare da paesaggi essenziali, scenografie metafisiche, ingegnosi costumi, e botte da orbi.
C'è da capire perché Luciano Vincenzoni e Sergio Donati, coautori della sceneggiatura, abbiano ritirato la loro firma.
Ridotto com'è per volontà dei committenti americani i quali hanno preteso il lieto fine, Paladini è un film scombiccherato, inesistente sul piano del racconto: un susseguirsi di squisitezze formali (altri diranno di Caroselli) che gli tolgono senso e calore, un'elementare cornice di galoppate, di armature animate da pupi, di duelli e controluce.
Tecnicamente ineccepibili, sicché il regista Giacomo Battiato può anche mandare soddisfatta la propria ambizione di cosmopolita artigiano, ma che racchiudono nel vuoto spinto i personaggi leggendari e la tradizione cavalleresca, volatilizzano gli elementi ironici affidati a un Maurizio Nichetti che fa il mago vestito di corteccia e a un eremita voglioso di pulzelle, e lasciano nella memoria un gran rumore di ferraglie.
La grancassa battuta su giornali e rotocalchi per salutare l'avvento di questo "Excalibur all'italiana" ci dispensa dal trattenerci sulla trama, basti dire che, salvo una pausa di riflessione di Rolando, ritiratosi nel bosco col cuore a pezzi, e gli spasimi di Bradamante che teme s'avveri una funesta profezia, il più e condensato in cavalcate e urlacci, in ladroni che tentano dì stuprare le belle, in teste tagliate di netto, casti amplessi su tappeti di foglie, e stragi di villici.
Ovviamente con echi giapponesi (lasceremmo da parte Bresson), del western, e tutto immerso nel genere "fantasy" ma, ripetiamo con cortissimo fiato narrativo. Per cui si applaude allo scenografo Luciano Ricceri, alla costumista Nanà Cecchi che ha mostrato una bella inventiva nel disegno delle armature, al fotografo Dante Spinotti, agli interpreti obbedienti e gradevoli, e si riprende in mano l'Orlando Furioso.
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