Trionfo di colori e un messaggio: la fantasia non muore mai
di Maurizio Porro
Nessuno potrà mai dire sé davvero Pinocchio, acquistato lo stato sociale di bravo ragazzo e abbandonato inerme sulla sedia il burattino che era, poi sia vissuto felice e contento. Dalla nuova, seducente e fantasmagorica versione di Benigni e del fedele Vincenzo Cerami, con l'apporto determinante e favolistico di scene e costumi del grande compianto Danilo Donati, cui il film è dedicato, sembrerebbe proprio di no.
Tanto che mentre il bambino per bene entra finalmente a scuola, la sua ombra, perduta come nel racconto di Chamisso, rimane un folletto, un piccolo alien che non si rassegna a «normalizzarsi», non accetta di diventare come gli altri. Perché la fantasia non muore mai. È questo il concetto «polemico» dell'atteso Pinocchio di Benigni che si attiene, da amante fedele, al libro di Collodi, che sparò crudelmente contro la società italiana umbertina e perbenista del 1881. Pinocchio ripete tre volte, all'inizio, non a caso: «Che brutto paese, che brutto paese, che brutto paese!». Nel film festoso e fastoso ci sono infatti le istituzioni in crisi, i poliziotti arrestano sempre le persone sbagliate e i giudici (tra cui un irriconoscibile Corrado Pani) mangiano in tribunale con gaudio e voluttà i lecca lecca confiscati al povero ladruncolo Lucignolo, il personaggio dell'amico, riuscito benissimo, con una sua eterna vitalità da ragazzo per sempre, grazie all'intenso Kim Rossi Stuart.
Benigni, con il suo vestitino di carta fiorita, non insiste per banalizzare e attualizzare, pur ricevendo in dote dal libro che per primo gli consigliò Giuseppe Bertolucci, temi di ghiotta contemporaneità: la giustizia “ingiusta” di classe, la bugia diventata prassi. E il Paese dei balocchi, ispirato all'illustratore francese Honoré Daumier, che potrebbe sembrare l'Italia virtuale e televisiva di oggi, creato da Donati con un gioco incredibile di specchi, colori e riflessi, è il regno della libertà e dell'anarchia non solo infantile. Se mai il Pinocchio davvero no global, quello che una certa sinistra si aspettava da Benigni con cui non mancherà di polemizzare, era quello che aveva in mente e su cui aveva lavorato Fellini, la cui ombra circola nel film fin dal magico inizio con quell'alito di vento misterioso sul selciato notturno della cittadina; mentre passa la carrozza di casanoviana memoria.
Il «Pinocchietto» Benigni, con grande saggezza e fiducia nella suggestione delle meraviglie, ha preferito voltare pagina dopo il «caso» meraviglioso della Vita è bella e rifugiarsi nel regno della Fantasia: anche la vita da fiaba è bella. Qui si esibisce da grande folletto senza età cui ogni piroetta è permessa, anche se ne compie cinquanta a fine mese: ma torna alla maschera primordiale e ancestrale per cui ogni polemica sulle candeline è fuori luogo. Benigni è giustissimo nella parte, spesso sottilmente spiritoso, si arrampica da tutte le parti, materialmente e psicologicamente.
E ha scelto benissimo il cast, a partire dalla sua metà, la fata Turchina Nicoletta Braschi che qui diventa anche il Fato, lasciando una scia edipica di mamma-moglie. Magnifico nella sua dignitosa aria proletaria settecentesca il Geppetto di Carlo Giuffrè, delizioso il Medorovanitoso di Mino Bellei, un pò in penombra il direttore del circo Bergonzoni, imprendibile e irripetibile effetto speciale il grillo parlante di Peppe Barra, straripante e gigantesco Franco Javarone Mangiafuoco.
Spocchiosi, un pò nordisti e furbetti il Gatto e la Volpe dei Fichi d'India, attori della zona gotica della favola, che mantiene saldi i suoi incubi notturni di ladri ed assassini tra colori tenebrosi e mari in tempesta. E non sarebbe giusto tacere che tra i vari coautori di questo barocco Pinocchio delle meraviglie c'è Nicola Piovani, il cui talento è ormai uno struggente copyright che si infila nelle pieghe del film, insidiandolo col cuore e aiutando la marcia della commozione.
E dove l'emozione si raffredda, ecco che interviene il trucco di Rob Hodgson che ha creato la fauna digitale, la balena, i topini, il grillo e il ciuco, la cui trasformazione precede la commozione della morte dell'asino Lucignolo, cattivo bravo ragazzo e vero alter ego di Pinocchio. Un Pinocchio che entra in scena come un pezzo di legno, in cui si intuisce che dentro c'è Benigni, che saltella per tutto il paese, un folgorante inizio in cui si capisce come ogni tanto il cinema tecnologico possa diventare poesia.
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