Sindrome d'Argento senza choc
di Maurizio Porro
La casual poliziotta agli Uffizi resiste a Caravaggio e Botticelli, ma al «Volo di Icaro» di Bruegel non ce la fa più e s'accascia. È l'attacco di quella snobistica malattia emotiva che Stendhal, prima vittima nel 1817 a Santa Croce, battezzò come «sua» sindrome. Tornata in albergo, confortata da un biondone per nulla rassicurante, la ragazza ha un nuovo attacco guardando la «Ronda di notte» di Rembrandt: esce dalla riproduzione ed entra nel giallo, alla caccia del solito serial killer stupratore.
Purtroppo «La sindrome di Stendhal» di Dario Argento finisce virtualmente qui. Lo stordimento dello spunto bello e allarmante, è dunque un pretesto, dice «il thriller è servito» e scompare. Da qui in poi siamo alle solite, con Asia sconvolta, vittima predestinata dell'assassino, che cambia parrucche, sfregi e personalità, torna a Viterbo in una casetta da Giulietta scespiriana, viene ritrovata, torturata ma alla fine ha la meglio. Il maniaco muore dopo 70': possibile? Infatti, i delitti continuano e si complicano.
Qualcuno gioca su due tavoli, ma il pubblico rischia di scoprirlo prima dell'ispettore Diberti e dello psicologo Bonacelli, che paga il ritardo di persona.
Metafisica
Argento, da 25 anni imbonitore di un cinema spesso originale e affascinante, è in fase di transizione: non si accontenta più di far scoprire chi è stato, vuole l'onirico e il metafisico, restringendo i fatti e preferendo il surreale, senza rinunciare alla lametta insanguinata, alle scene-raccordo con i poliziotti, al silenzio urlato degli innocenti. Avulso dal reale, «La sindrome» paga la banalità della sceneggiatura (siamo sempre alle conseguenze della violenza) e un cast non memorabile, in cui i meno memorabili sono i ragazzi Kretschmann e Leonardi. Asia Argento, certamente molto dotata, obbedisce intensamente al papà, sviluppando probabilmente un suo Edipo's studio.
Tecnicamente è di serie A: Rotunno dirige la notturna fotografia, Lia Morandini veste e sveste i malcapitati, gli effetti speciali di Stivaletti sono contabilizzati a 17 milioni il minuto e Morricone serializza con angoscia un girotondo di sei note, leggibili anche al contrario. Alla base ci sono l'innamoramento e amore dell'autore per uno psicosaggio di Graziella Magherini («La sindrome di Stendhal», ed. Ponte alle Grazie), mentre il film è stato novellizzato in un libro Bompiani.
Ma, incartati i cadaveri, non resta nulla, nessun brivido subliminale. Delitti e castighi sono enunciati, nevroticamente asettici, già espiati e sofferti: le efferatezze scivolano via sull'inconscio, alcuni dialoghi sono imbarazzanti.
Bei tempi
Peccato, perché Argento è un animale di cinema visionario in via di estinzione e ci piacerebbe molto poter sintonizzarci di nuovo sui ritmi asincroni e barocchi del suo inconscio, come ai bei tempi infernali di «Tenebre», «Suspiria» e «Phenomena».
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