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Con il Tito Andronico delle periferie Shakespeare diventa Stephen King


di Tullio Kezich


Se si prende «Tito Andronico» come una vera tragedia o si tenta di provare simpatia per il protagonista, l'opera di Shakespeare è improponibile, mentre nel suo crescendo di atrocità fra uccisioni, stupri, cannibalismo rivela una formidabile qualità parodistica.

Insegna Harold Bloom che il giovane Shakespeare intendeva farsi beffe del celebre drammaturgo Marlowe e ci riuscì dando al pubblico orrori e sangue a gogò. Aggiunge acutamente il grande critico che il testo è «l'equivalente di ciò che troviamo oggi in Stephen King»: una stimolante commistione di sadismo e ironia. In tale chiave si è mossa Julie Taymor quando nel '94 mise in scena il testo shakespeariano, che ora ha portato sullo schermo collocando un protagonista come Anthony Hopkins nella grottesca cornice predisposta dall'art director Dante Ferretti.

Lo straordinario scenografo di Pasolini e Fellini (al quale si è aggiunta Milena Canonero, candidata all'Oscar per i costumi) ha scelto come reggia imperiale il Palazzo delle Civiltà all'Eur facendone il perno del panorama metastorico in cui è immersa la Roma di oggi. Sicché "Titus" rivive tra ruderi imperiali e vestigia mussoliniane, periferie degradate e traffico ammorbante, incluso un blitz all'Arena di Pola per indisponibilità del Colosseo. In tal modo l'immagine del film (servita in chiave onirica dall'operatore Luciano Tovoli) risulta totalmente italiana, tanto da culminare in una contaminazione alla Carmelo Bene. Sull'onda del disco «Vivere» cantato da Carlo Buti, l'ineffabile Hopkins in tenuta e cappello da cuoco serve il suo ributtante pasticcio di carne umana alla regina cattiva Jessica Lange e agli altri ospiti del banchetto. Ha ragione Bloom quando dice che di fronte a questa tragedia non si sa se rabbrividire o ridere. Va detto altresì che la compagnia recitante complessivamente non sfigura; e ha la sua carta vincente nel personaggio del moro Aaron, incarnazione del Male, affidata a un potente quanto inedito Harry Lenniy.






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