Vonnegut: "Vi parlo di un mondo in preda alla follia"
di Gianni Riotta
"La crisi del Golfo? Dimostra l’ineluttabile: l’umanità finirà entro un secolo"
Alto, dinoccolato, bretelle rosse sulla camicia azzurra, riccioli grigi arruffati, Kurt Vonnegut scruta la mia reazione. Prima che possa averne una, mi mitraglia di risate aspre, da fumatore senza filtro, si piega sulla sedia battendosi la mano sulla gamba, come a dire, sei scemo a prendermi sul serio, o sono scemo io a parlare così? Poi si raddrizza, serissimo, e riprende: «Auschwitz. Stiamo creando una Auschwitz planetaria»,
Da quando è scoppiata la guerra nel Golfo Persico Kurt Vonnegut non ha più un momento libero. Gli studenti della Columbia University lo chiamano per un comizio, i colleghi Grace Paley, Arthur Miller e William Styron lo consultano per un appello dal tono raziocinante: condanna di Saddam, appoggio a Bush nella fase delle sanzioni, ma ora ritorno alla diplomazia per ottenere la liberazione del Kuwait e sospensione dei bombardamenti. Di bombardamenti Vonnegut se ne intende. «Direi di sì, come sa chi ha letto il mio romanzo Mattatoio n. 5. Ero prigioniero di guerra in Germania, a Dresda, quando gli alleati lanciarono il blitz più devastante dell'intera guerra, più terribile anche delle bombe atomiche sul Giappone. L'aria stessa prese fuoco. Uscendo dal nostro ricovero trovammo solo cenere in una città senza alcun obiettivo militare».
Il fante Vonnegut, tornato in patria, diventa uno degli scrittori più popolari al mondo. Mattatoio n. 5 (Rizzoli) arrivò sugli schermi nel '72 (regia di George Roy Hill), ora George Harrison, l'ex Beatles, sta lavorando a un film dal romanzo Il breakfast dei campioni, mentre la casa produttrice Showtime riduce per la televisione i suoi racconti. Nel calendario affollato di Vonnegut, doveva esserci il Salone del Libro a Torino, per la traduzione italiana dei racconti Benvenuta nella gabbia delle scimmie (edizioni SE, pagine 151, lire 22.000) e del romanzo Galapagos (editore Bompiani, pagine 302, lire 22.000).
Quasi certamente lui questo viaggio non lo farà.
Per la guerra. «C'è da fare qui, lo scontro è qui da noi». Guerra, apocalisse ecologica, cataste di morti sotto le macerie; le cronache dal Golfo sembrano paragrafi dei suoi libri.
«Ma davvero?» e Vonnegut ride di gusto con la voce aspra. Che c'è di divertente'? «La guerra, veda, è bellissima. Lo faccia dire a me che ho fatto la guerra delle guerre, la battaglia di fanteria. La guerra è emozionante, appassionante, viva. Non ci si sente mai più vivi come quando si è in guerra. Sfortunatamente la guerra è anche orribile, barbara, mostruosa e squallida. Ma è bellissima.
Se io scrivo lo devo alla guerra, se mi diverto lo devo alla guerra, senza la guerra sarei un architetto noioso. La mia è una famiglia di architetti».
Da poco, in America, è uscito un nuovo romanzo: Hokus Pocus (anch’esso sarà tradotto in Italia, da Bompiani, dovrebbe uscire entro la fine di quest’anno). Il protagonista è un tipico eroe alla Vonnegut, veterano del Vietnam, si chiama come il profeta socialista americano Eugene Debs Hartke, è l'ultimo militare a lasciare Saigon, insegna in un penitenziario, finisce a sua volta dentro. Attraverso Hartke Vonnegut contempla «il declino dell'America». «La colpa è degli anglosassoni di lingua inglese - spiega -. Gente che ha letto troppo Shakespeare e niente Goethe, Schiller, i romantici tedeschi. L'inglese è diventato la lingua dell'imperialismo, in casa e all'estero. Gli "Anglos", gli anglosassoni, diffidano di neri, portoricani, iracheni, chiunque abbia la pelle scura. Senza offesa, considerano inferiori anche i mediterranei, voi italiani per esempio. Non hanno mai amato questo Paese, l'America. L'hanno preso in affitto, dopo il genocidio degli indiani, non fanno nulla per migliorarlo. Trovano conveniente venderlo ai giapponesi, non si fanno scrupoli, come gli inglesi in Rhodesia, i portoghesi in Mozambico, i belgi nel Congo. Vede? La vita non è più divertente!».
In Hocus Pocus il lettore troverà l'Armata dei Giapponesi in Abito Grigio, che invadono l'America lucrando sull'inanità dei businessmen anglosassoni. I comuni mortali si perdono in questa fine di mondo post-industriale, arrestati, schedati, inquinati: sola arma l'ironia, l'arguzia che devasta l'edificio del potere e apre una esile scorciatoia. «Io sono ovviamente contro Saddam Hussein e l'invasione del Kuwait - dice Vonnegut, di nuovo compunto - ma come si fa a non vedere che la guerra è frutto della tecnologia? La stessa roba che schieriamo in campo contro gli iracheni, e che per anni abbiamo venduto loro quando ci faceva comodo, inquina il pianeta e ci costringe a fare guerra. Riavremo il petrolio a buon prezzo c potremo inquinare di nuovo».
Ecco cosa significa la punteggiatura di risate nelle chiacchiere di Vonnegut: è lo scarto davanti al muro dei fatti considerati assurdi, inconcepibili. È difficile sentirsi parte di un Paese, io degli Stati Uniti, lei dell’Italia. Vorrei fare giurare ai miei figli di non servire mai in un esercito.
Io l'ho fatto, e le ripeto, la guerra è bellissima, ma è una pazzia». Da qui alla fine delle ostilità lei parlerà a migliaia di ragazzi, come l'autore più noto nelle università. Che cosa dirà?
«Gli studenti mi amano perché non smetto di farmi le loro domande: che avrà in mente Dio? Dobbiamo vivere secondo il Sermone sulla Montagna? Non farò discorsi politici, non intendo diventare un leader. Dirò che mio fratello Bernard, l’astrofisico, mi ha spiegato che la fine del pianeta è prossima. Li inviterò a leggere. Ognuno di noi è il frutto dei libri che ha letto prima dei venti anni. Io aggredisco i ragazzi mentre ancora non hanno sviluppato anticorpi. Da adulti, loro prendono il potere, ma io già li possiedo».
Vonnegut trova la strategia irresistibile, degna di una risata che si rompe in singhiozzi e lacrime agli occhi. Sembra un uomo affranto e felice.
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