di Maurizio Porro

I 119 minuti di questo sorprendente film di Casey Affleck che è doppiamente bravo come autore e attore, si svolgono in una natura in sfilata di colori autunno-inverno: grigi e bianchi. Ma regna nel deserto dei boschi un'atmosfera ostile. L'inizio è una favola, quella di Noè, che il papà racconta alla figlia di 11 anni, capelli corti travestita da maschio: sono nascosti dopo che un'epidemia ha raso al suolo metà della popolazione, quella femminile portatrice del virus.

Ora la ragazzina deve sembrare maschio perché altrimenti rischia linciaggi. Quindi «Light of my life» è la storia di un vagabondare senza meta, in un universo distopico, come piace dire oggi, in cui però si salva l'umanità basilare tra padre e figlia. Un film di grande fascino visivo ma non solo: per una volta la base fantastica – malattia mortale, umanità ko - non toglie al racconto la carica propositiva e di affetto. I due naufraghi del mondo incontrano i maschi rimasti e non sempre sono bei tipi, c'è una parte finale che vira decisamente verso il thriller. Anna Pniowsky è una bravissima attrice che diventa per bisogno la ragazzina spaurita ma pur sempre orgogliosa del suo sesso, nonostante le raccomandazione di papà Affleck che si conferma un ottimo regista: aveva avuto plausi come protagonista di «Manchester by the sea», destinati a ripetersi ora. In flashback appare la brava Elisabeth Moss, ma soprattutto allo spettatore, sempre in flash, verrà in mente «La strada», best seller di McCarthy.

Articoli per film

Copyright © di IntercoM Science Fiction Station - (180 letture)