Elogio dell'amore paterno ma con troppi effetti digitali
di Paolo Baldini
Non so se i robot sostituiranno un giorno i registi alla direzione di un film, ma mi sembra evidente che già oggi le innovazioni tecnologiche stanno indirizzando le carriere di alcuni di loro. L'esempio più recente è quello di Ang Lee, indimenticato autore di film come Tempesta di ghiaccio, La tigre e il dragone o I segreti di Brokeback Mountain e ultimamente invece trasformato in una specie di paladino delle nuove tecnologie digitali.
Che ha saputo «piegare» alle proprie ambizioni artistiche in opere come Vita di Pi e Billy Lynn - Un giorno da eroe ma da cui è stato invece «piegato» e soffocato nell'ultimo Gemini Man.
La ragione la si trova nello squilibrio (altrove assente) tra le novità tecnologiche (High Frame Rate 3D e CGI) e il modo in cui sono messe al servizio del film, in questo caso talmente predominanti da annientare quasi del tutto la forza della narrazione.
Gemini Man racconta la storia di Henry Brogan (Will Smith), un super-killer al servizio degli Stati Uniti e capace di prodezze straordinarie. Lui avrebbe deciso di smettere e ritirarsi, ma scopre che qualcuno vuole eliminarlo. Con l'aiuto, all'inizio non proprio volontario, della giovane agente Danny Zakarweski (Mary Elizabeth Winstead), e del fidato ex commilitone Baron (Benedict Wong) non impiegherà molto a capire chi ha ordinato di dargli la caccia, e cioè il suo ex superiore Clay Verris (Clive Owen). Più o meno chiaro anche perché sia finito nel suo mirino (la paura che scopra, come in effetti farà, che l'ultima missione non era così onesta e patriottica come sembrava). Il vero mistero dovrebbe essere capire chi Verris ha messo sulle tracce di Brogan e soprattutto perché è così abile.
Ma non ci vorrà molta intuizione per farlo, specie se non si dimentica il titolo: il protagonista è talmente abile da poter essere sconfitto solo da qualcuno come lui, da un suo «gemello». Esattamente quello che Verris è riuscito a creare. Altrettanto abile e preparato, ma con un'«arma» in più: l'età, visto che la nuova «versione» di Brogan ha più o meno la metà dei suoi anni. E a questo punto che l'apparato tecnologico messo in campo dalla Fox viene squadernato davanti agli occhi del pubblico (e finisce per soffocare il film) facendo interagire i miracoli delle tecnologie digitali con gli effetti delle riprese ad alta velocità.
Perché il giovane Brogan non è interpretato da un attore cui sono stati modificati digitalmente i lineamenti per giustificare l'effetto clone. No, Henry junior è totalmente frutto di una computer generated imagery (CGI), è una versione sintetica cui Will Smith ha solo «prestato», attraverso la tecnica della performance capture, le espressioni del volto. È qualcosa di immateriale che combatte sullo schermo e che si lancia in corpo a corpo sempre più concitati e coreografici, la cui perfetta resa sullo schermo richiede un ulteriore ritrovato tecnico, l'High Frame Rate, cioè le riprese a 120 fotogrammi al secondo (con uno scorrimento del supporto digitale cinque volte più veloce del normale), necessarie per evitare nelle scene più concitate l'effetto di sfocatura (o blur), che comporterebbero le lenti tradizionali, e per accentuare poi il senso di profondità dell'immagine. Così da favorire la resa del 3D e i suoi effetti.
Tutto perfetto se non fosse che a questo punto (e siamo solo poco più in là dell'inizio) il film si sente come obbligato a inanellare tutta una serie di scontri, straordinari dal punto di vista tecnico, ma francamente ripetitivi (per non dire inutili), da quello narrativo.
Trasformando Gemini Man in una specie di catalogo visivo sulle possibilità offerte dalle nuove tecnologie, sicuramente ammirevole ma più adatto a una fiera delle innovazioni tecnologiche e digitali che non a uno spettacolo popolare.
È vero che i tre sceneggiatori (David Benioff, Billy Ray e Darren Lemke) infarciscono i dialoghi di pseudo-riflessioni sul doppio e sui rischi che comportano per l'uomo certe invenzioni. Ma per finire ben presto in prevedibili elogi della famiglia tradizionale, dell'amore paterno e del senso di figliolanza, di cui avremmo volentieri fatto a meno.
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