Recensione di Franco Stocco a "Il mondo della foresta"
"The word for world is forest" e cioè "La parola per dire "mondo" è foresta" bellissimo titolo per un bellissimo romanzo che è un’ennesima prova della grandezza della sua autrice: Ursula Kroeber Le Guin, forse la miglior penna della sf. Il titolo la cui poesia ci ricorda il famoso "The Left hand of darkness" (La mano sinistra delle tenebre, 1971 Libra ed. - Gli Slan 9), sta ad indicare la dipendenza della fauna e quindi degli indigeni dalle distese forestali che ricoprono i continenti e le isole del pianeta Athshe. Anche qui come negli altri romanzi dal ciclo di "Hainish", l'ambiente è uno dei tanti mondi "disseminati" dagli hainiti una razza umanoide che compare anche in questo romanzo.
Due i personaggi principale della vicenda: il tenente Davidson, ufficiale dalla mentalità dura, fredda, cinica, il cui disprezzo per il pianeta e per gli indigeni, che considera delle bestie d’allevamento, è estremo; in tutto il romanzo questa figura di schiavista del Sud degli Stati Uniti si commuove solo alla vista della scialuppa dell’astronave, esempio della perfezione tecnica dei terrestri. L’altro è Selver, il giovane indigeno la cui moglie è morta violentata da Davidson, diverso dalla media del suo popolo, egli capisce che alla violenza dei terrestri non si può rispondere passivamente (diremo alla maniera non-violenta di Gandhi, come sembra reagiscano gli altri athsiani) ma con la stessa moneta.
Tra queste due figure contrapposte si inserisce quella di Liyuböv, forse la più significativa anche se meno marcata, scienziato terrestre, per la precisione europeo, che a differenza dei colleghi scienziati e del militarista Davidson, prova ancora dei sentimenti per la natura. Liyuböv è un ecologo nel vero senso della parola: egli vuole che il pianeta Athshe resti integro, non contaminato, sia a livello culturale indigeno, sia a livello generale di 'ecosistema'.
Non dobbiamo dimenticare anche gli altri protagonisti: dal colonnello terrestre che vuole spazzare via la cosiddetta "barbarie" locale, alle emblematiche figure dei due umanoidi, il cetiano e l'hainìta, rappresentanti di due razze veramente "mature", a dispetto della definizione dei due data da Davidson: "scimmia grigia e grossa checca bianca'".
I personaggi del libro sono inseriti in un ambiente che ricorda quello di Aldiss ne "Il lungo meriggio della Terra", solo che qui la Le Guin, a differenza delle sue opere lunghe del ciclo "Hanita", tralascia l’approfondimento dell’ambientazione cercando piuttosto di marcare i personaggi e il simbolismo dell'opera. Simbolismo etico contro il colonialismo, contro il razzismo, contro l'interferenza delle Grandi Potenze negli affari interni dei piccoli stati: a questo proposito molti sono i collegamenti con il conflitto vietnamita (dalle bombe al napalm usate dai terrestri per eliminare la guerriglia indigena, alla missione punitiva di Davidson al campo dei “creechie' che ricorda il massacro di My Lai.
Ci sono poi l’opposizione allo sfruttamento delle risorse naturali, la satira alla superumanizzazione riscontrabile in molte opere di s.f., e infine non meno importante, la convinzione che il ruolo della donna nella società umana è ancora quello di merce di piacere, è significativa in tal senso la frase di Davidson vero sputasentenze: "non cercare il buon senso nelle donne e nei 'creechie"; mentre è interessante il rapporto uomo-donna nella società indigena.
Ma i temi sono moltissimi, in un'opera che si legge d'un fiato e che resta tra le migliori della sf, anche se il suo eccessivo moralismo sembra non piacere troppo alla Le Guin (vedi a tale proposito la posizione definitiva dell'autrice nel commento finale) ma la grandezza dell’opera sta proprio in questo, nella sua “forza d’urto”, nell’impatto che crea, "trat d’union" con un’altra recente opera d’attacco: “Il gregge alza la testa".
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