A citizen of Mondath
di Ursula K. Le Guin
Una sera, quando avevo dodici anni, cercavo nella libreria del salotto qualcosa da leggere, e tirai fuori un volumetto della Modern Library, con la vecchia, morbida copertina in pelle. Aveva un titolo strato: "A Dreamer’s Tales”. Lo aprii vicino alla vecchia poltrona verde accanto alla lampada; quel momento é scolpito nella mia memoria, Lessi:
Toldees, Mondath, Arizim, queste sono le Terre Interne, le cui sentinelle non vedono il mare.
Oltre esse, verso est, é situato un deserto da sempre inviolato dall' uomo; tutto giallo e chiazzato dalle ombre delle rocce, e la Morte vi abita come un leopardo che giace nel sole. A sud esse sono racchiuse da una magia, ad est da una montagna...
Non so bene perché Dunsany fu per me una rivelazione; perché quel. momento fu così decisivo. Avevo letto molto, e molto di quello che leggevo era mito, leggenda, fiaba; anche versioni di prima mano come Padraio Column Asbjornsson; ecc.. Avevo anche ascoltato mio padre raccontare leggende indiane così come egli le aveva udite dai narratori, soltanto tradotte in un inglese lento, solenne; ed erano storie impressionanti e misteriose.
Quello che non avevo capito, credo, é che la gente creava ancora miti. Uno poteva creare per sé dei racconti, naturalmente, ma lì c’era un adulto a farlo, per altri adulti, senza alcun rispetto per il buonsenso, senza una spiegazione, scaraventando il lettore dentro le Terre Interne… Qualunque fosse stata la ragione, quel momento fu decisivo. Avevo scoperto la mia terra natale.
Il libro apparteneva a mio padre, un uomo di scienza, ed era uno dei >suoi preferiti; infatti egli amava molto la fantasia. Mi sono chiesta spesso se non vi sia una qualche connessione tra un certo tipo di mentalità scientifica (del tipo esplorativo, capace di sintesi), ed una propensione per la fantasia. Forse dopo tutto, "science fiction" non è un nome sbagliato per il nostro genere. Quelli cui non piace la fantasia sono, molto spesso ugualmente annoiati o respinti dalla scienza. Essi non amano ne gli hobbitts nè le quasars; non si sentono a proprio agio con essi; non vogliono cose difficili, remote. Se davvero c’è una qualche connessione di questo tipo scommetto è fondamentalmente una connessione estetica.
Mi chiedo cosa sarebbe successo se fossi nata nel 1935 invece che nel 1929 ed avessi letto Tolkien prima dei vent’anni invece che dopo. Questo avrebbe potuto sopraffarmi. Sono contenta di aver avuto una qualche idea di una mia personale direzione prima di aver letto Tolkien.
L'influenza di Dunsany fu invece del tutto benigna, ed io non tentai mai di imitarlo nei miei prolifici scritti imitativi d’adolescente. Devo aver saputo già che quel genere di scrittura è inimitabile. Egli non fu un modello per me, ma una liberazione, una guida.
In ogni caso, mi stavo dirigendo verso le Terre Interne prima ancora di avere mai sentito parlare di esse.
Conservo ancora la mia prima "short story" completa, scritta a nove anni. Racconta di un uomo perseguitato da diabolici folletti. La gente pensa che egli sia matto, ma gli elfi alla fine si infilano dentro attraverso il buco della serratura e lo prendono. A dieci o undici anni sorissi il mio primo racconto di fantascienza. Parlava di viaggi nel tempo e dell’origine della vita sulla Terra, ed era brioso nello stile. Lo spedii ad "Amazing Stories”.
C’è un altro vivido ricordo: mio fratello Karl sulle scale che guarda verso di me sul pianerottolo e dice riluttante: "Temo che questo sia il tuo racconto rispedito indietro”.
Non ricordo d' esserne rimasta molto abbattuta, piuttosto lusingata da un vero rifiuto. Non mandai però niente altro a nessuno fino a che ebbi ventun anni, ma credo fu più codardia che saggezza.
Noi ragazzi leggevamo science fiction nei primi anni del '40: "Thrilling Wonder" ed "Astounding" nel formato grande che ebbe per un po’ di tempo e così via. Mi piaceva soprattutto "Lewis Padgett" e cercavo le sue storie, ma andavamo in cerca delle riviste spazzatura proprio perchè ci piaceva la spazzatura. Ricordo un racconto che cominciava con: "All'inizio c‘era l"Uccello". Noi ci davamo proprio da fare su quell'uccello. L'ultima riga di un altro racconto (o dello stesso?): "Indietro nella palude sauriana dalla quale era uscito!"
Karl ne fece una rima:
La palude sauriana da cui s'era levato
non pianto, non onorato e non cantato.
Mi chiedo quanti scribacchini i quali pensano di scrivere per "ragazzi ingenui" e "sedicenni" comprendano il tipo di piacere che a volte danno ai lettori. Se lo comprendessero tornerebbero ad affondare nella palude sauriana da cui sono emersi.
Non ho mai letto solo fantascienza, come fanno molti ragazzi. Ho letto tutto quello su cui potevo mettere le mani, il che era illimitato. C'era una casa piena di libri ed una buona biblioteca pubblica. Mi allontanai però dalla science fiction negli ultimi anni del '40. Sembrava tutta centrata su marchingegni e soldati. Inoltre ero impegnata con Tolstoi e compagnia. Non lessi più science fiction per circa quindici anni, proprio nel periodo che ora viene chiamato l’Età dell'Oro della sf. Persi del tutto Heinlein ed altri. Se guardavo una rivista, sembrava ancora imperniata su capitani spaziali vestiti di nero con volti scarni e volitivi ed un mucchio di armi stravaganti. Probabilmente non sarei mai tornata a leggere sf, e quindi a scriverla, se non fosso stato per un amico, qui a Portland, nel 1960 o 61, che aveva una piccola collezione, e mi prestava qualunque cosa io adocchiassi.
Una delle cose che mi prestò fu una copia di "Fantasy and Science Fiotion" che conteneva un racconto dal titolo "Alpha Ralpha Boulevard" (in Nova SF n. 6-LlBRA ED. e Futuro N. 4 –FANUCCI) di Cordwainer Smith. Non ricordo proprio cosa pensai quando lo lessi ma quello che penso adesso di aver pensato allora é: "Mio Dio! si può fare!”
Dopo d'allora lessi parecchia science fiction, cercando quel genere di scrittura e ne trovai, qua e là.
Potrebbe sembrare quindi che, dal momento che ce n’era così poca, io mi fossi messa a scriverne. No, non è così. È molto più complicato e noioso. Per farla breve, avevo scritto per tutta la vita, e la mia stava diventando una questione di pubblicare o perire. Non si può continuare a riempire la soffitta con l'Arte, così come non si può praticare il sesso indefinitamente da soli; dopo tutto essi hanno lo stesso nemico naturale: la sterilità. Mi erano state pubblicate varie poesie ed un racconto su piccole riviste; ma non era abbastanza, e considerando che avevo scritto cinque romanzi negli ultimi dieci anni. Dovevo sfondare o smettere.
Uno dei romanzi era ambientato nella San Francisco di oggi, ma gli altri erano ambientati in un paese dell’Europa Centrale immaginario, anche se non fantastico, come i migliori racconti brevi che ho scritto. Questi romanzi non erano Science Fiction, non erano Fantasy, pure non erano realisti. Viking ed altri editori fecero semplicemente notare che "quel materiale sembra remoto”.
Era remoto. Era stato fatto apposta così. Cercando una tecnica distaccata ero approdata a questa. Sfortunatamente era una tecnica che nessun altra allora usava, non era attraente, non si collocava in nessuna delle categorie. Per pubblicare un libro in America bisogna o collocarsi in una categoria o avere un nome. Poiché l'unico modo in cui potevo farmi un nome era scrivere, fui costretta a collocarmi in una categoria. Perciò i miei primi sforzi per scrivere science fiction furono motivati dall' unico desiderio di pubblicare: né più né meno.
I racconti riflettono questa motivazione estrinseca.
Sono piacevoli, non molto buoni, non seri, essenzialmente piani. Furono pubblicati da Cele Goldsmith Lalli, il gentile e coraggioso editore di "Amazing” e "Fantastic” nei primi anni del 60.
Il cambiamento dal genere di lavori che avevo prodotto prima ad altri catalogabili come fantasy o science fiction fu molto grande, ma ebbi ugualmente un mucchio di cose da imparare. Inoltre ero bellamente ignorante di scienza, e proprio allora dovetti cominciare ad autoeducarmi (un'impresa disperata ma che oontinuo a compiere con immensa gioia).
Inizialmente conoscevo troppo poco la scienza per usarla come parte del tema essenziale di un racconto, e così scrissi fiabe vestite di tute spaziali. Se hanno qualche merito ciò è dovuto al mio lungo apprendistato nella poesia e nel romanzo psicologicamente realistico.
Il mio primo racconto di science fiction che scrissi e che comincia ad uscire dal triviale divenne l’origine ed il prologo del romanzo breve "Rocannon's World". Stavo cominciando a sentire la science fiction. Nei libri successivi continuai a spingere più avanti i miei limiti e quelli del genere. Questa è la pratica di un'arte: cercare il punto più lontano. Quando lo trovi fai una cosa completa, solida, reale e bellissima; qualsiasi cosa di meno è incompleta. Questi libri erano certamente imperfetti, specialmente "City of illusions" che avrei fatto bene a non pubblicare, così com’é. Ha degli elementi buoni, ma é meditato solo per metà. Stavo diventando orgogliosa ed impaziente.
Questo è un pericolo reale, quando scrivi science fiction. C'é così poca vera critica che, nonostante il piacevole ed incoraggiante scambio di idee tra i fans ed il contatto con essi lo scrittore è quasi l’unico critico di se stesso. Se produce roba di seconda qualità gli editor gliela comprano come e qualche volta più dell’altra, ed i fans gliela comprano perché é science fiction. Rimane solo la sua coscienza a insistere o che egli deve tentare di produrre roba migliore. Nessun altro sembra curarsene.
Naturalmente questo è fondamentalmente vero per la pratica di ogni genere letterario e di tutta l'arte, ma è esagerato nella science fiction. E poi non é vero a lungo termine, né per la fantascienza né per ogni altro genere. Si può aver fede nel verdetto dei posteri, ma non é questo uno strumento pratico utilizzabile nelle istanze specifiche. Ciò di cui abbiamo bisogno è una critica letteraria genuina, seria: un qualche standard.
Non voglio dire pedanteria o un elaborato, teorizzare accademico. Voglio dire proprio il tipo di standards cui qualsiasi musicista, ad esempio, deve soddisfare sia che egli suoni il rock all'organo elettronico o Bach col violoncello, egli viene ascoltato da persone informate, profondamente interessate, e se è una mezza tacca glielo dicono, e così se è bravo. Nel nostro campo a volte sembra che finché è fantascienza i fans l'apprezzeranno quindi gli editori la stamperanno, perciò lo scrittore probabilmente é spinto a dare molto meno del suo meglio.
Quello mediocre e quello eccellente sono premiati allo stesso modo, dagli aficionados, ed ignorati assieme da quelli che stanno fuori. In una situazione del genere é semplicemente incredibile che scrittori Philip K. Dick continuino nell'eccellenza. Non è del tutto sorprendente - ma molto triste - che scrittori come Roger Zelazny vengano costretti ad un lungo periodo di sforzi con scarsi risultati, di movimenti a tentoni dopo una iniziale certezza. Dopo tutto scrivere non è solo un atto creativo, é anche una risposta. La mancanza di una risposta genuina, e perciò la mancanza del senso di responsabilità é penosamente chiara in quegli scrittori che vanno avanti semplicemente imitando se stessi.
Penso comunque che gli standards si stiano alzando.
So che é così quando ripenso alla palude sauriana da cui siamo venuti fuori.
Negli anni 1967 - 68 finalmente potei separare la mia vena puramente fantastica da quella fantascientifica scrivendo "A Wizard of Earthsea" e poi "The Left Hand of Darkness", e la separazione segnò un grossissimo progresso, sia nella forma che nel contenuto. Da allora sono andata avanti a scrivere con la mano destra e con la sinistra; ed é stata tutta questione di continuare a spingere in avanti i limiti - i miei e quelli del mezzo espressivo. Sicuramente la spinta più consistente l'ho data nel mio ultimo romanzo, "The Dispossossod".
Alcuni predicano che diserterò la science fiction e mi getterò follemente nel "mainstream”. Non so perché.
I limiti ed i grandi spazi della fantasy e della science fiction sono proprio quelli di cui la mia immaginazione ha bisogno. La Spazio Esterno e le Terre Interne sono ancora, e sempre lo saranno, il mio paese.
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