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Intervista a Vittorio Curtoni


di Flavio Casella


Desidero anzitutto ringraziare Vittorio Curtoni per la cordialità e la schiettezza con cui si è prestato a rispondere alle mie domande, alcune delle quali un tantino provocatorie.

È stato un colloquio veramente piacevole; nella trascrizione (il colloquio è stato registrato) ho cercato di essere il più fedele possibile, proprio per cercare di conservare l'immediatezza del linguaggio parlato, modificando solo quei passaggi in cui il discorso va avanti a forza di "beh", "ecco" e "dunque".

Spero che i lettori vorranno apprezzare questo mio tentativo, e sopportare di buon grado una certa inevitabile "pesantezza" di lettura.

D - ROBOT è una rivista di tipo nuovo, per l'Italia: è infatti l’unica pubblicazione a diffusione capillare che si articola nei modi tipici delle riviste amatoriali, alternando cioè narrativa e saggistica.

Di dove è nata l'esigenza di una simile rivista?

In quale modo cioè si è compresa la disponibilità del grosso pubblico italiano a recepirla?

R - L'esigenza… non lo so esattamente, perché l'idea è stata dell'editore, non mia, e questa è una cosa che tengo a sottolineare.

Infatti è stato Armenia che me ne ha parlato la prima volta più di un anno fa, mentre stavamo andando a Bologna a trovare il dott. Piero Cassoli; famoso parapsicologo italiano. Io lavoravo già qui come redattore, e lui, conoscendo la mia passata esperienza come curatore di riviste di fantascienza, e visto che la casa editrice è in una certa espansione, ha pensato di fare una rivista, e ha chiesto a me come io avrei fatto una rivista di fantascienza.

L’impostazione che è stata data a ROBOT l'ho scelta io, in base all’esperienza di Galassia, e in base anche all'esperienza vecchia delle fanzines che io facevo dieci o dodici anni fa.

In quanto al fatto della disponibilità del grosso pubblico, questo è vero solo in parte, cioè la realtà pratica dei fatti è che il grosso pubblico legge URANIA, non R0BOT; con questo non voglio pianger miseria, perché la rivista non va affatto male, anzi va bene…

D - Direi che è letta, ROBOT, a quanto ne so.

R – Sì è letta, infatti sta andando decentemente; nessuno pensa di chiudere, anzi i progetti sono di fare qualcosa di più; però le cifre non le dico perché sono i piccoli segreti editoriali – però rispetto ad URANIA c'è un enorme dislivello, come c'è un enorme dislivello, d'altra parte, tra URANIA e GALASSIA, che è un'altra rivista che sta facendo un discorso più impegnato, se vogliamo usare questo termine, sulla fantascienza.

Quindi, io non l'ho fatto perché pensavo che il grosso pubblico sentisse questa esigenza, l'ho fatto perché pensavo che una certa parte di pubblico sarebbe stata contenta, e infatti lo vedo anche dalle lettere che arrivano, perché molti lettori di URANIA che continuano a leggere URANIA sono contentissimi di, avere questo tipo di informazione, in ogni caso, esiste una buona fetta di pubblico che era pronta a recepire una cosa del genere; addirittura c’è ogni tanto qualcuno che mi scrive "non so come facevo a vivere prima senza ROBOT" (dal punto di vista fantascientifico, ovviamente), e questo per me è una cosa molto bella.

Quindi posso dire che è stato un po’ un rischio, dal punto di vista editoriale, però debbo dire che è andata bene, e ne sono contento.

D - Pur presentandosi come una rivista che vuole rompere coi vecchi schemi, ROBOT ha pubblicato finora quasi esclusivamente testi di autori anglosassoni ultra-affermati; niente di nuovo o rivoluzionario (GALASSIA, ad esempio, ha pubblicato Moorcock, antologie sulla New Wave, etc.). Ciò è dovuto a mancanza di testi validi, ad una politica editoriale ben precisa, o al timore di andare incontro ad insuccessi di vendita?

R - Senz'altro la ragione definitiva è l'ultima, cioè il timore di insuccessi di vendita. Lei potrà vedere già sul n. 9 che uscirà a dicembre e sul n. 10, ché uscirà a gennaio - particolarmente sul  n. 9- una gran quantità di nomi quasi sconosciuti. Ci sono la Saxton e la Brennan, che non si sono mai sentite in Italia, c"é Harlan Ellison che é famoso come nome ma di cui si è sempre pubblicato pochissimo.

Abbiamo ad esempio anche un Van Vogt che è un nome famosissimo, ma con un racconto che è del tutto "fuori", basato, detto volgarmente, sull’idea degli extraterrestri che vanno al cesso a fare insieme i loro bisogni. Cioè coi numeri 9 e 10 parto con l'operazione di rottura. L'ho fatto adesso perché, avendo una certa pratica di editoria, mi sembrava che partire con queste cose sarebbe stato azzardato; infatti la gran massa dei lettori che ci scrivono chiedono in primo luogo Asimov (senza Asimov sembra che ci sia il vuoto d'aria) poi Simak e così via. Però io ho la precisa intenzione di andare avanti, anzi scavalco tutti pubblicando dei nomi di cui non è stato tradotto niente. E questo, è ovvio, lo faccio poco per volta, gradualmente.

D - Passo ad un argomento che si può affiancare a quanto detto prima: sull’ultimo numero di ROBOT, lei si è lamentato della qualità scadente dei racconti inviati da autori dilettanti, ed ha invitato a non inviare lavori "che non siano all'altezza di ciò che solitamente si pubblica su questa rivista". Non le sembra eccessivo costringere un autore dilettante a reggere il paragone con Asimov e Sturgeon? In fondo, se pensiamo a ciò che pubblicò Asimov agli esordi…

R - Detto che quello che pubblicò Asimov, o Sturgeon o tutti gli altri agli esordi a me non piace e io non lo pubblicherei, cioè non pubblicherei l'Asimov del '32 o lo Sturgeon del '41, e quindi questa è già una mia precisa posizione…

D - Ecco, ma Asimov sarebbe arrivato ai punti a cui è arrivato se nessuno gli avesse pubblicato quello che scrisse agli inizi?

R - No, senz'altro no. Però c'è da tenere presente una considerazione ben precisa, che il mercato italiano, quindi in America una rivista ha potuto e può permettersi tuttora una certa politica. Io seguo regolarmente Analog, una delle poche riviste sopravvissute, ed essa presenta dei racconti che io considero abominevoli e indecenti, di persone che in genere sono appunto nuove; loro lo possono fare, anche se la rivista non va benissimo; anzi Analog va malissimo, (relativamente all'andamento generale del mercato americano, s'intende) però vive lo stesso. In Italia, facciamo un'ipotesi assurda, io pubblicassi i lavori dei lettori così come ci arrivano, facendo solo una scelta molto superficiale, senza scendere un tantino in profondità, sono sicuro che ci sarebbe un mucchio di proteste. Ci sono state proteste per i lavori che abbiamo pubblicato, che secondo me e secondo altri erano il meglio di quanto abbiamo ricevuto, quindi figuriamoci…

D - Lei pensa quindi che non sia il caso, proprio perché ROBOT si rivolge a un pubblico di appassionati, sottoporre loro in maggior misura opere di dilettanti, nell'intento di favorirne la crescita, invece di tarpargli sul nascere?

R -No, guardi, non è là sede.

D - Cioè, lo lascia alle fanzines questo compito.

R - Si, lo lascio alle fanzines, per il momento, e le dico di più: se ci fosse la possibilità, io sarei più che disposto ad un'iniziativa editoriale a livello nazionale in tal senso. Cioè lo farei volentieri, come passione, come spinta. Però nessun editore di professione - e Armenia è un editore dì professione - farà mai una cosa del genere. L'unica possibilità di arrivare a una rivista che pubblichi i racconti degli esordienti, incoraggiando quelli che meritano di più, cioè fermi restando certi criteri di selezione, è quella di fare una cooperativa, un consorzio, una qualche iniziativa che venga anche dal fandom ma che sia poi attuata a livello professionale. Però qui si parla di un ordine di soldi che è nel giro dei cinquanta-cento milioni. Non so se questo è attuabile. Per quanto riguarda noi, se facessimo una cosa del genere il pubblico si arrabbierebbe moltissimo e noi rischieremmo di chiudere la rivista.

D - Lei è sicuro che il pubblico si arrabbierebbe?

R - Sono matematicamente sicuro!

D - C'è chi afferma che gli autori italiani "vogliono per forza fare qualcosa dì originale, e finiscono col disorientare o stancare il pubblico; hanno paura di “imitare" gli americani e ciò è totalmente sbagliato" (Roberto Bonadimani, intervista su TTM n. 5).

R - Non sono affatto d'accordo. Tra l'altro, io ho fatto la mia tesi di laurea sugli autori italiani, e sarà pubblicata quest'anno. È un grosso plico di '300 e più, cartelle, quindi già questo dimostra la mia idea completamente negativa su quanto dice l'amico Bonadimani.

Secondo me la differenza basilare è il mercato, che è un punto fermo di divisione tra noi e gli americani: l'americano cioè può permettersi di scrivere quel che vuole, perché vende; e a cifre molto, molto ragguardevoli: non c'è paragone col mercato italiano, anche della letteratura tradizionale. Questo mette già in posizione di vantaggio l'autore americano, che può scrivere un racconto o un romanzo di consumo. L'italiano no: se l'italiano dilettante o semiprofessionista o professionista che sia, si mette a scrivere, lo fa perché vuole dire qualcosa, perché vuole arrivare a un certo risultato.

Secondariamente, è diversissima l'educazione generale che hanno avuto gli italiani. La maggior parte degli scrittori americani di fantascienza, se non oggi almeno fino al '50-'60 - sono stati poi Disch, Zelazny e così via a introdurre un discorso diverso - aveva un'estrazione scientifica, mentre in Italia, tranne pochi nomi (Sandrelli, ad esempio, che è chimico) la cultura è prevalentemente umanistica. E quindi la differenza basilare secondo me è quella: mentre l'americano - e oggi si vede, c'è un enorme ritorno alla fantascienza avventurosa, space-opera e così via - ha una precisa coerenza, scientifica" (ma lui può permetterselo), se io, poniamo, o Miglieruolo, ci mettessimo a scrivere un romanzo di space-opera, con l'ambizione di fare un’opera tecnologico-scientifica, faremmo probabilmente una solenne porcheria.

E in questo sta la differenza: noi siamo diversi proprio perché siamo umanisti, e tutta la nostra cultura è diversa, non è assolutamente ad indirizzo scientifico, al massimo è filosofica, ma la filosofia è scienza entro limi i molto ristretti.

D - Bene! Questo mi soddisfa, perché è quello che pensavo anch'io.

R - Ed è quello che ho cercato di dimostrare nelle 300 pagine della mia tesi.

D - Cosa pensa della polemica tra fantascienza e mainstream? Pensa che la fantascienza debba sforzarsi di uscire dal ghetto, o che debba essere invece il mainstream ad accoglierla, accettandone le caratteristiche peculiari?

R -La domanda non mi sembra del tutto esatta: io credo che negli ultimi anni - da Ballard, in poi, tanto per fissare una data - ci sia stato un avvicinamento, ma non del mainstream alla fantascienza, quanto della fantascienza al mainstream. C'è stata cioè l'adozione di tecniche letterarie, di tutti quei mezzi che sono tipici del mainstrem. Però, in compenso, finita quella che e stata chiamata New Wave, e che poi inglobava un mucchio di cose, c'è stato un ritorno, come dicevamo prima, all'avventura, alla space-opera e cosi via. Questo secondo me dimostra proprio la tendenza a volersi caratterizzare come genere specifico, diversificandosi dal resto. Io non sono d'accordo: io credo che la fantascienza possa - e credo di averlo dimostrato - e debba anche avvicinarsi sempre di più al mainstream. Torniamo agli italiani: un racconto italiano di fantascienza, nella maggioranza dei casi, non è un racconto di fantascienza in senso stretto: è molto più mainstream che fantascienza. Cioè è molto più l’aspetto letterario, lo stile, l’atmosfera e così via che viene curato, che non tutto l’apparato che sta dietro, la trovata, l'idea…

Io pensò che l'avvicinamento sia senz'altro attuabile, e per me è augurabile, perché io preferisco di gran lunga il romanzo di Zelazny al romanzo, che so, di Williamson o di Hamìlton.

D - Questa è una domanda un po’ cattivella e lei è un buon autore di fantascienza (almeno giudicando da quanto ho letto e da quel che si dice).

Ha intenzione di pubblicare su ROBOT, oppure lo giudica sconveniente, vista la sua veste di direttore?

R- No, non lo giudico affatto sconveniente, e ho intenzione di pubblicare su ROBOT. Il problema è che non ho un racconto nuovo; lo sto scrivendo. Non vedo perché dato che in tutto il mondo i direttori di rivista, i curatori di antologie e via dicendo si pubblicano tranquillamente i loro lavori, in Italia uno debba vergognarsi di pubblicare sulla sua rivista.

D- Non lo vedo neanch'io in effetti. È solo che non ho visto niente di suo, e ho pensato: come mai? Non penserà mica in quest’ottica?

R - No, no! Non c'è il raccontò. In ogni caso avrei preferito aspettare, lasciar passare un anno, un anno e mezzo.

L'errore che è stato fatto è doppio: c'è chi non ha mai voluto pubblicare cose sue, ed ha sbagliato. C'è viceversa chi - e non faccio nomi, ma penso che lo sappiano tutti - ha pubblicato solo ed esclusivamente opere proprie. Ecco, non bisogna cadere in nessuno di questi due estremi. Ma, se io pubblico ogni anno, ogni anno e mezzo, un racconto di un certo autore italiano, non vedo perché non debba pubblicare anche uno dei miei racconti, ogni anno e mezzo.

D - Che consigli darebbe, nella sua veste di professionista, ad un autore dilettante di fantascienza? (In questo momento, con questo mercato con questo mercato così com’è, etc.)

R - Consigli come? Su come scrivere o su come pubblicare?

D - Tutte e due le cose; però io penso che non si possa consigliare a uno come scrivere. Più che altro, fino a che punto dar retta a chi chiede delle modifiche ben precise, mi modifichi il finale in questo modo, mi tolga queste due virgole etc.?

R - Io direi che bisogna ascoltare i consigli di chi. ha un'esperienza professionale. Non lo dico perché sono in questa posizione, ma anche a me recentemente è capitato di vendere un racconto ad un curatore di un’antologia italiana, il quale mi ha chiesto delle modifiche, ne abbiamo parlato insieme, lui aveva i suoi motivi e io i miei, e alla fine ho accettato. Non mi sembra che ritoccare certe cose, specie la virgola o l'aggettivo, sia una maniera di uccidersi; credo che su certe cose si possa molto più facilmente sorvolare. Il problema più grosso, al limite, può venire, come dice lei, quando si chiede di cambiare il finale...

D - Che è quel che si chiede di più, perché il finale è il punto dolente di molti racconti, sia professionali che dilettantistici.

R - Si metta nei miei panni; io ho questa rivista, pubblico racconti italiani e stranieri tutti sullo stesso livello, e pago gli uni come gli altri. Se a me una certa cosa non piace, ma non così a capocchia tanto per dire questo mi fa schifo, ma anche portando motivazioni - una motivazione ci deve essere sempre - se questo mio discorso è logico e coerente non vedo perché non lo si debba accettare. Soprattutto se, come mi è capitato tante volte, proprio nel finale un racconto che magari è buono va a finire nel trito e ritrito. In, questo caso, il cattivo servizio si fa non solo a chi compra la rivista e si legge un racconto con un finale che sa già, ma anche all'autore stesso, il quale se ci avesse pensato un attimo di più, potrebbe essere aiutato.

Io sono convinto che molti autori italiani, proprio perché non c'è il mercato, non esercitino la minima autocritica nei confronti del proprio lavoro. Uno scrive il racconto, lo finisce, gli piace moltissimo - questo è normale - lo manda in giro, poi arriva al curatore che gli chiede una modifica; allora uno si arrabbia; questo non è giusto, e non creda che in America le cose vadano diversamente: anche un Farmer, un Dick o chiunque altro può essere non dico costretto, ma invitato gentilmente a modificare certe cose. In caso contrario… è molto semplice, il curatore non gli pubblica il racconto. Mi sembra che questo sia un criterio irrinunciabile. Come lo faccio io nei confronti di altre persone, mi sembra che tutti, tutti debbano farlo.

D – Può fornire qualche anticipazione sui programmi di ROBOT per il 1977, e magari qualche titolo, notizie su questi numeri speciali di cui si sente molto parlare?

R - Adesso posso dirlo, perché il primo uscirà all’inizio di dicembre: saranno dei supplementi alla rivista che usciranno un sette-dieci giorni dopo la rivista stessa.

D - In che quantità, quanti all’anno?

R - Dovrebbero essere dal tre ai quattro l'anno.

Saranno sempre antologie dedicate o a un periodo particolare o a un tema particolare, o ad un autore; la prima, che esce appunto a dicembre, sarà sui primi vent'anni della fantascienza, cioè dal '26 al '46. Si tratta di una decina di racconti circa, vedremo con precisione quando avremo impaginato. Noi ne abbiamo acquistati dodici, quelli che non ci stanno finiranno su ROBOT.

I fascicoli saranno di 190 pagine, e costeranno mille lire; sono 32 pagine in più di ROBOT e duecento lire in più. Non ci saranno le rubriche, ma ci sarà una presentazione generale - questa volta l 'ha fatta Giuseppe Lippi, che è lo specialista delle cose arcaiche -; non posso dire cos’abbiamo in programma perché c'è la faccenda dei contratti, però in linea di massima vorremmo fare come secondo volume un’antologia personale di un grosso scrittore (non italiano) e poi un’antologia a tema; posso dire genericamente il tema, che è "i pianeti stranieri", tanto di racconti su questo tema ce ne sono moltissimi.

La compilerò io, e dovrebbe essere materiale inedito.


Registrata il 28/10/1976 presso la redazione dell’editrice Armenia - Milano






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