Perchè, come, cosa
di Renato Pestriniero
Su TTM 3/79 la lettera di Fabio Calabrese tocca ancora una volta l'argomento su cosa dovrebbe trattare la FS di casa nostra.
È un argomento che si trascina da anni con il risultato di trovare ancora schierati su due fronti contrapposti gli assertori di una certa FS di matrice USA e i sostenitori di una FS svincolata dalla predetta matrice e rispondente più a temi di natura intimista e a una cultura umanistica.
Finora avevo evitato di entrare nell'agone per corrispondenza e mi ero limitato a dire come la penso nei rari incontri con il fandom. Questo non per mancanza di interesse, ma per mia convinzione che il "cosa" scrivere venga di gran lunga dopo il "perché" e il "come" scrivere FS.
A che si deve allora questa decisione di mettere nero su bianco? Direi che la spinta definitiva l'ho avuta da una parola sentita durante un telegiornale, di cui parlerò più avanti; così approfitto dell'occasione per presentarmi più direttamente, far conoscere il mio rapporto con la FS e come io vedo questo rapporto sotto i diversi aspetti.
Veniamo al sodo: nell'introduzione a NODI su TTM 3/79 mi sono soffermato in particolare sulla tematica; vorrei aggiungere che il primo racconto cui accenno, scritto durante il servizio militare, non lo pensai con l'etichetta FS; mi venne spontaneo di descrivere un mio stato d'animo in quel modo. Successivamente "0ltre il cielo" lo accettò come prodotto di FS, ma ciò che voglio dire è che certe cose che ognuno di noi sente la necessita di esternare, possono trovare la loro collocazione più idonea solo nella FS per i vantaggi che quest’ultima ha nei confronti della narrativa mainstream: noncuranza per i confini del reale, intrusione disinvolta nello spazio e nel tempo in ogni campo dello scibile.
La FS mette a disposizione di ognuno un palcoscenico su cui recitare le proprie gioie e dolori, lanciare accuse e sfogare il proprio cinismo o humour o rabbia contro tutto e tutti, o allargare le braccia e cingere l'intero universo. Cose nostre cioè, senza scomodare sempre stelle e pianeti.
Il mainstream, viene detto ormai da tempo, non ha più nulla da dire, gli argomenti che può trattare essendo esauriti sia nella tematica che nella forma. Ogni sperimentalismo è stato provato, accettato o rifiutato, riproposto con un vestito nuovo, superato, esaurito.
Attualmente abbiamo il coinvolgimento totale fra autore, personaggio e lettore, "relazioni reciproche tra fruitore e produttore dell'oggetto letterario", abbiamo i "romanzi irraggiungibili", e c'è stato un sussulto.
Un altro sussulto ci fu quando apparve il grosso cetaceo, ma sono sussulti ben orchestrati che faticano a superare le pareti di certi salotti.
Credo sia questa una delle ragioni percui viene detto, da alcuni magari a denti stretti, che l'unica espressione letteraria con ancora qualcosa di valido può essere la FS.
Per quanto mi riguarda, ho detto che cominciai a scrivere FS naturalmente, quasi in un esperimento di scrittura automatica, e subito mi sentii affrancato da ogni vincolo che non fosse di forma.
Ecco perché, personalmente, scrivo FS, e perché mi sembra eccessivo il dilungarsi su certi aspetti come il significato della parola fantascienza e l'etichetta esatta da darle (con già alle spalle il suo 50 compleanno!) mentre vengono sorvolati problemi che ritengo di base.
Scendiamo all’essenziale, e vediamo che un romanzo maistream può parlare di fatti reali mescolati a fantasia, o fantastici con agganci alla realtà, o di fantasia tout-court. Un romanzo di FS può essere tutto ciò, eventualmente su livelli un po' sfasati.
E come il maistream spazia dal romanzo-saggio all'evasione più disinvolta, in FS andiamo dal romanzo-cronaca sociologico al fantasy. Ergo, si tratta dello stesso "oggetto letterario", un raccontare qualcosa sia per puro divertimento, sia per lanciare certi messaggi più o meno sotto metafora.
Sono convinto che la FS (naturalmente certa FS) sia un aspetto della letteratura comunemente intesa, con una collocazione ben precisa al di sopra dei sottogeneri della narrativa cui normalmente viene affiancata (giallo, western, spionaggio, ecc.).
In altre parole ho sempre considerato la FS come LETTERATURA D'IPOTESI e direi che bisogna interpretarne lo spirito senza canonizzarne i limiti.
Spendiamo quindi meno parole per le tematiche e preoccupiamoci un po' di più dello stile, del come fare FS.
Calabrese dice che facciamo parte del mondo industrializzato occidentale nel riferirsi a certa FS di casa nostra che sembra non accorgersene.
Indiscutibilmente. Aggiungerei che siamo irrorati dal technological fall-out americano, viviamo sempre più in mezzo alle macchine ma... qui salta fuori quella parola sentita al telegiornale e che mi ha dato la spinta (la classica goccia). Un telecronista (quello che tiene il microfono come una candela in processione per la madonna pellegrina), parlando di previsioni, annunciò che il cervellone dava una certa percentuale. Ecco, il mass-medium per antonomasia fa vedere un cronista TV (da ritenersi un rappresentante della categoria "in") che ancora oggi chiama un elaboratore dei dati (se non vogliamo chiamarlo computer) "cervellone" e questa parola la pronuncia non con il solito mezzo sorriso idiota per collocarla fra virgolette, ma con una serietà che mi ha colpito come una mazzata. Ma ve la figurate la scena?
studio: "siamo sicuri di queste previsioni?".
cronista TV: 'assolutamente"
studio: "da chi sono state fornite?"
cronista TV: "le ha diramate pochi istanti fa il cervellone"
studio: "molto bene: Se ci sono altre notizie chiedi la linea".
Una sciocchezza? Può darsi, e non la prima di questo genere. Quante volte abbiamo visto annunciatrici andare in tilt per qualche notizia scientifica, naufragare su qualche parola un po' osè in campo tecnologico? Il satellite che viene collocato a 50000 metri anzichè chilometri, il Bernacca che sgrana ancora gli occhi nominando l’orbita geostazionaria di 36000 chilometri e sottolinea "chilometri, non metri".
Cose appunto di tutti i giorni, ma alle volte un dettaglio assume improvvisamente un significato emblematico di tutto un sistema di vita, di un modo di pensare.
Quindi attenzione, la universal way of life tende si a livellare tutti, ma il livellamento avviene in superficie e solo molto tempo dopo comincia ad intaccare le caratteristiche di un popolo. C'è ancora molta differenza nel come vedono le cose del mondo persone di paesi diversi, anche se tutte indossano le tee shirt fruit of the Loom (GrandHotel non ha mai avuto crisi di vendite, e ora siamo in riflusso. Sono termometri questi che non bisogna mai perdere di vista anche se purtroppo continuano a segnare febbri malefiche).
Tutto questo per ritrovarci al solito confronto Italia-USA. Poche parole forse non del tutto nuove:
1. Le radici storiche fra i due paesi non è necessario ripeterle, ed è inutile fingere di non tener conto della differenza; come le radici culturali americane hanno prodotto la FS di H. Gernsback e le correnti che ne sono derivate, non vedo perché lo stesso discorso non debba essere valido se applicato all'Italia. Sono fattori che condizionano il modo di vita e di pensiero di ogni popolo, e ogni espressione artistica ne riflette. A meno che non si voglia intendere che, essendo nata in USA, la FS debba seguire solo quelle caratteristiche, cosa che, per quanto mi riguarda, rifiuto nel modo più assoluto principalmente per le garanzie di libert' cui ho accennato nella prima parte.
2. Come gli scrittori USA fanno parte di un popolo che, convivendo con la macchina, ha avuto il tempo di formarsi un modo di pensare tecnologico di natura, così noi ci siamo formati un humus particolarmente umanistico, di analisi introspettiva e di visione filosofica.
Non vedo ragione per non usare anche questa matrice di una produzione di FS di alto livello, ingrediente insostituibile a mio parere per creare una simbiosi con una buona narrativa maistream.
3. La FS deve essere azione, suspence, meraviglia. E perche? forse perché questo genere si è fatto conoscere per la space opera? e tanta FS inglese allora? e quante opere diffuse proprio dai portatori del verbo? (penso a certi personaggi di Sturgeon come esempio emblematico).
Ma ecco che quando un autore di lingua inglese fa muovere i suoi personaggi nell'inner space, scatta un meccanismo nella nostra critica, tendente a spiegare e giustificare, quasi a voler coprire un peccato che, invece, è dimostrazione dell'esistenza di una FS USA che non ha come conditio sine qua non l'azione e il sense of wonder a tutti i costi.
Comunque, sarò blasfemo, ma secondo me buona parte della scuola americana è un bluff.
Tutti abbiamo letto le biografie dei grandi nomi, coloro che indicano la via, e abbiamo letto spesso del primo racconto spedito all'editore per passione o per sbarcare il lunario. Se non alla prima, in una successiva occasione il racconto viene pubblicato e vediamo il nostro che lascia gli studi o il lavoro, se già ce l'ha, e con i proventi della pubblicazione si mette a scrivere a tempo pieno, entrando in quell'ingranaggio dell’editoria USA che ben conosciamo.
Iniziano le pubblicazioni a scadenze contrattuali, c'è il salto dalla magazine al paperback, quello dal paperback al rilegato, le prime interviste, gli inviti alle convention.
È bastato uno o pochi racconti per mettere in moto un meccanismo che lo ha collocato a un livello di prestigio non solo in patria ma in tutto il mercato di lingua inglese e occidentale in genere.
Con questo non voglio fare di ogni erba un fascio e dire che gli autori di lingua inglese non valgono, tutt’altro (adoro gli inglesi), ma non posso togliermi il sospetto che con quelle condizioni particolari che permettono un'espansione così massiccia in un mercato che assorbe centinaia di migliaia di copie, qualche nome abbia raggiunto il successo non tanto per la qualità quanto per la quantità, indipendentemente dal giudizio ufficiale che gli viene attribuito qui, specie se "tira".
Noi stiamo ancora dibattendo se fare una FS all'italiana e all’americana e non ci accorgiamo (o forse ci accorgiamo benissimo) che continuiamo ad applaudire ogni nuova moda impostaci dal mercato: abbiamo applaudito alla space-opera prima maniera, quindi alla FS tecnologica, quindi alla sociologica, quindi alla new-wave e sempre abbiamo gridato al miracolo ad ogni cambiamento. Ora ri-applaudiamo alla neo-space-opera. Quanti autori italiani hanno idee valide ma non hanno il milione di copie per indottrinare un pubblico già predisposto ad accettarle?
Si sarà capito che non sono dalla parte degli "americaneggianti" e infatti sono convinto che avremmo le carte in regola per seguire una nostra via. Nulla di nuovo, naturalmente; è la solita asserzione teorica che non potrà essere messa in pratica. Perché? ma perché la nostra è una lingua che trova già le prime difficoltà ancora prima di oltrepassare i patrii confini settentrionali limitando inesorabilmente il mercato, perché gli editori devono andare sul sicuro e vendere senza bisogno di traduzioni, parche non bisogna dimenticare che ormai la FS è stata sputtanata in misura tale che più di così non si può (grazie cinema! grazie TV! grazie giornali!) Al limite, nei momenti favorevoli (di moda) come l'attuale, qualche grosso nome della narrativa italiana butterà sulla FS con il piacere del ricco che si veste di stracci o avvolgendo la sua opera con i più disparati appellativi dove però la FS non figura. Vediamo sceneggiati TV (senza alcun dubbio di FS) che, per la loro paternità o per il loro rigore stilistico e serietà, vengono presentati senza che questa parola venga mai pronunciata. Verrà però pronunciata molte volte e con enfasi quando a rappresentarla ci sarà un Pippo Franco qualsiasi. perché è chiaro, la vera, l'unica FS da portare al popolo è quella di Guerre Stellari.
Intendiamoci, questo non lo dico per piangerci sopra, ma perché porta alla conclusione che chi scrive buona FS in Italia lo deve fare esclusivamente per amore della materia, per passione, per esercizio letterario, o per tutto quello che si vuole fuorchè per traguardo economico.
E qui sta una delle grandi differenze fra l'autore italiano e quello di lingua inglese. Ora, stilisticamente parlando, non viene il dubbio che chi fa un lavoro solo per passione lo possa fare meglio di chi lo fa per ricevere l’assegno a scadenze fissa? E allora, viene da chiedersi, perché dobbiamo tanto vergognarci e avere sempre quel senso di inferiorità per il nostro prodotto nei confronti del prodotto preconfezionato che magari dovremo snobbare fra non molto perché la moda dell’obbligo lo impone?
Ma soprattutto un'altra cosa: vogliamo veramente che qualche titolo di FS vada a porsi accanto ai grandi nomi della narrativa italiana, o tutto questo interminabile dibattito sulle etichette da dare è una mascheratura, una sorta di paura di mettersi al confronto con certi nomi che continuiamo dentro di noi a collocare su un piano irraggiungibile?
Abbiamo detto che la FS ha una prerogativa che il maistream non ha: la vastità di orizzonti, la mancanza di limiti nelle tematiche; perché allora non scrivere FS con il rigore del mainstream, dandole cosi quella nobiltà di forma e validità di stile che finora solo in rari casi le è stato permesso di raggiungere? soprattutto stile, materia prima per poter avanzare dei diritti.
Invece, pur non avendo la possibilità di contare sul grande mercato, anziché puntare su una produzione adatta alle nostre strutture, continuiamo a incaponirci e seguire un modello col quale, per formazione e per impossibilità tecniche, non potremo mai metterci in concorrenza: e se qualcuno tenta la via della FS che ci sta bene per formazione e per possibilità tecniche, tentando di lanciare un ponte verso la narrativa mainstream e ottenere uno sbocco di qualità oltre che di mercato, si dice che manca di sufficiente physique du role.
Una regola verso la quale ritengo di doverci sentire legati è quella di scrivere FS cercando sempre di essere noi stessi, senza bluffare, senza chiedere in prestito retaggi culturali che non ci appartengono, avere il coraggio di rappresentarci come siamo, un popolo che si serve ancora non di computer ma di cervelloni, che è immerso in un contesto culturale e in un pensiero umanistico (anche se in superficie sembra cambiato) piuttosto che in una coesistenza con la macchina.
A questo riguardo vorrei agganciarmi all'idea di Calabrese sul vantaggio di trovarci in un’area periferica del mondo tecnologico e poter così valutare certi problemi ad esso inerenti prima che accadano da noi. Lascerei un momento da parte il vantaggio, e vedere in questo un'altra buona ragione per staccarci da quella libido nel voler copiare i modelli d’oltre oceano. Come può riuscire un lavoro hard-core valido con il gap psico-tecnologico che ci ritroviamo?
Esempio: quando a loro capita un black-out, la semplice cronaca dei fatti vista per immagini o letta sui quotidiani non è altro che una serie di scalette per racconti o romanzi di FS sociologica, tecnologica, ecc… Ci troviamo cioè di fronte a una società nella quale fatti normali (o eccezionali come un black-out ma comunque rientranti in una probabilità ben definita) forniscono gratis abbondante materiale (è intuibile come un black-out in una megalopoli ad altissimo livello tecnologico di 10 o 20 milioni di abitanti di ogni razza crei situazioni che impoveriscono le stesse situazioni in una città unirazziale di 3/4 milioni di abitanti).
Per questo sono d’accordo con quanto disse a suo tempo Maurizio Mantero citando Raymond Chandler: "soffermiamoci più su cosa può provare un uomo che al mattino si sveglia venti centimetri più alto, non certo di spiegare perchè sia successo".
Col soffermarsi quindi sull'umano più che sullo scientifico, {lasciando questo campo a chi di competenza) arriviamo al terzo punto dopo il "perché" e il "come": "cosa" scrivere di FS.
Qui ognuno dovrebbe essere libero di fare ciò che vuole grazie alla libertà d’azione che la FS offre.
Per quanto mi riguarda, la mia idea l'ho espressa in una lettera inviata a Vittorio Curtoni in relazione a un profilo dedicatomi nel suo saggio "Le frontiere dell'ignoto - 20 anni di fantascienza italiana" e pubblicato su Robot 25.
Non trovandomi del tutto d'accordo su una sua interpretazione della matematica, approfittai per sottolineare la mia propensione a soffermarmi sull'umano più che sullo scientifico: "… è appunto per l'importanza che do al tuo saggio che vorrei aprire un dialogo sul pericolo di assuefazione tale da perdere di vista la realtà quotidiana… in relazione a una delle tematiche di base che ho cercato di usare e che peraltro tu hai bene inquadrato dando l'esatta ragione del senso di angoscia riscontrato in alcuni miei racconti. Alla chiusura del tuo brano critico fai riferimento alla teoria di Wilhelm Reich dicendo che una narrativa che abbia ambizioni di critica psicoanalitica non può limitarsi alla rappresentazione di una assoluta passività dell'uomo di fronte ai suoi stessi archetipi.
Posso essere d’accordo, ma questo fino a che punto può funzionare sul piano pratico? Io ho cercato di rappresentare l'uomo di fronte a dei fatti e a delle situazioni che sono al di là delle sue forze, portandolo ad uno stato di crisi. Questi fatti e situazioni possono provenire dall'esterno o essere provocati dall'uomo stesso (interventi alieni/presenze di altri mondi oppure crisi sociali/fantasmi dell'inconscio). Un uomo di cultura può indicare il superamento dello stato di crisi usando la psicanalisi come strumento di lotta, per usare le tue parole, senza cedere alla passività. Ma io mi chiedo se il discorso può essere applicato a un Giovanni Rossi qualsiasi, che, anche se rappresentante selezionatissimo della razza umana tecnologica, si trovi improvvisamente dinanzi un qualcosa che non fa parte della sua sfera di "umanità", e per sfera di umanità intendo tutto ciò che, anche se portato al limite estremo, rientra nelle possibilità umane.
Insomma, la psicoanalisi è concepita e serve per lo studio nell'ambito dell'umano, ma quando ci si trova di fronte a qualcosa che umano non è, cosa succede? Voglio dire che di fronte ad un evento straordinario, la reazione istintiva sarà di paura, di fuga o addirittura di rifugio nella pazzia o nella morte, più che di freddo ragionamento.
In altre parole quest’ultimo tipo di reazione lo vedrei proprio di un superuomo più che di una persona che rientra nei limiti di quella che comunemente viene intesa come normalità, con le sue debolezze e i suoi limiti. Ecco, proprio debolezze e limiti in molti casi ho voluto rappresentare, a causa dei quali l'uomo si trova impreparato e la sua fuga è solo per non poter affrontare qualcosa al di fuori della sua sfera di possibilità, oltre la quale “non si può più ragionare”… per dirla terra terra, nessuno di noi, malgrado la più ferrea volontà potrà mai sollevarsi dal suolo sbattendo le braccia e questo perché siamo costruiti entro certi limiti oltre i quali non possiamo andare.
Si potrà quindi discutere a tavolino per cercare il modo di combattere questa impossibilità, ma all'atto pratico rimarrà sempre tale.
Ho portato un banale esempio fisico, ma lo stesso metro lo applicherei al comportamento della mente. Ciò che mi ha sempre affascinato è stato rispondere a questa domanda: come si comporterebbe psicologicamente una persona di fronte a una situazione che non rientra nei suoi schemi di comprensione per quanto ampi essi siano, o comunque nell’impossibilità materiale di reagire?... descrivere cioè un comportamento da "normale" in una situazione anormale-limite.
Il discorso è tutto qui: portare il lettore, riuscendoci, di fronte a una situazione nei confronti della quale pensa "io farei cosi" e forse non è la soluzione scelta dal protagonista, ma è comunque una soluzione comprensibile e accettabile nella quale il lettore si ritrova.
Questo 'realismo' nell’accompagnare le azioni dei personaggi io lo ritengo inevitabile nell’economia del racconto o del romanzo per dargli spessore e validità (lo metto tra virgolette perché un realismo comunemente inteso sarebbe in FS una contraddizione in termini).
Forse è per una automatica reazione nei confronti di un lavoro di FS in cui il protagonista non compie azioni strabilianti che si parla di passività. Un accenno alla passività (peraltro intesa in un discorso introspettivo e filosofico da F. Stocco) l'ho trovato anche su Laboratorio di TTM 3/73 per il racconto NODI che viene messo a confronto con "THE DEATH OF BEN BAXTER di Robert Sheckley. In quest'ultimo racconto c’è il Consiglio di Pianificazione Mondiale che cerca di ribellarsi alle regole del tempo ma alla fine dovrà arrendersi alle loro immutabilità, e alla conclusione sia in "THE DEATH OF BEN BAXTER" che in "NODI" il vincitore è il tempo e non poteva essere altrimenti.
C'è però una differenza sostanziale mi pare fra i due racconti: Baxter e Brynne non sono a conoscenza che si cerca di manipolare il tempo alle loro spalle mentre il protagonista di "NODI" lo sa.
Ma troviamo casi in cui il protagonista, pur sapendolo, si rifiuta e cerea di combattere ugualmente il tempo. Sempre per quel famoso "realismo" non mi sentirei mai di far combattere un essere umano, che si presume provvisto di un normale Q.I. contro un'entità come il tempo: come? con che armi? a mani nude? con la propria forza interiore? per un essere intelligente lottare può significare anche vincere, ma allora, se riesce a vincere anche Crono, non potrà più chiamarsi semplicemente uomo ma collocarsi nell'Olimpo della Marvel.
Con questo credo di aver dato un’idea anche su cosa io intendo generalmente scrivere di FS.
L'ho fatta lunga, ha detto tante case risapute, tante cose forse verranno contestate e credo che alla fine tutto ritorna come prima,
Mah! Forse prendo la FS un po' troppo sul serio.
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