Ritornare dal silenzio
di Jonathan White
“Si può trovare un denominatore comune nell'opera e nel pensiero di Ursula K. Le Guin?" si chiedeva Theodore Sturgeon". "Probabilmente no; ma "ci sono delle note "che nei "suoi concerti si sentono ripetutamente e con potenza". Una cauta paura che la democrazia possa scivolare in dittatura. Le celebrazioni del coraggio, della resistenza", del rischio. La lingua", non solo amata e plasmata, ma investigata in tutti i suoi aspetti; chiamiamola, forse, il comunicare. Ma soprattutto, in termini quasi non-terrestri, Ursula Le Guin esamina, attacca, sbottona, abbatte e spoglia la nostra nozione di realtà".
Con oltre tre milioni di copie di libri in stampa, Ursula Le Guin non è solo uno degli scrittori più letti in Nord America ma anche uno dei più prolifici. Durante uno dei suoi intensi periodi di scrittura, tra il 1966 e il 1974, ha pubblicato sette romanzi di science-fiction, nove poesie, tre romanzi fantasy, sedici short stories, cinque recensioni e sedici saggi. Per queste ed altre opere ha vinto numerosi premi," compreso il Boston Globe-Horn Book "Award nel 1969, per il suo prima romanzo fantasy A Wizard of Earthsea. Nel 1970 ha ricevuto i premi Hugo e Nebula per The Left Hand of Darkness, nel 1972 fu finalista al National Book Award for Children Literature per The Tombs of Atuan. Nel 1985, Ursula Le Guin fu promotrice del National Book Award e vinse il Kafka Award per Always Coming Home, e nel 1993 vinse il National Book Award per The Farthest Shore.
WHITE: Dalla sua Opera emerge chiaramente che il linguaggio e la scrittura sono diventati strumenti affilati per re-visionare la società umana e il posto dell’umanità nella dimora globale. Molto di questo revisionismo, almeno negli ultimi trent'anni, è stato ispirato ai principi femministi. Il suo scopo, lei dice, è sempre di sovvertire, creare metafore "dove ogni assunto possa essere messo alla prova ed ogni regola riscritta. Comprese le regole su chi deve comandare, e su quale sia il significate del gender (dell'essere uomo oppure donna}, e su chi riesca ad essere veramente libero". Cominciamo col parlare di come sei stata introdotta al movimento femminista, e che ruolo esso ha giocato nella tua scrittura.
LE GUIN: Il contatto avvenne lentamente e tardi. Tutta la mia narrativa giovanile tende ad essere incentrata su personaggi maschili. In un paio di libri di Earthsea le donne sono del tutto assenti o sono solo figure marginali. È così che funzionavano le storie di eroi; parlavano di uomini. Con l’eccezione di pochissime femministe come Joanna Russ, la fantascienza era decisamente dominata dalla presenza maschile fino agli anni ’60. Le donne che scrivevano in questo campo spesso usavano pseudonimi, ciò non mi disturbava. Era la mia tradizione, e ci lavoravo dentro allegramente. Ma cominciai a sbarazzarmi di alcuni inconvenienti. Il mio primo testo femminista fu The Left Hand of Darkness, che cominciai a scrivere nel 1967. Fu uno dei primi esperimenti di decostruzione del gender.
Tutti si stavano chiedendo, "Cosa significa essere uomo? Cosa significa essere donna?" è una domanda difficile, così in LHD eliminai il gender per scoprire cosa sarebbe rimasto. La fantascienza è una meravigliosa occasione di fare giochi di questo tipo. Per essere un esperimento mentale, LHD era piuttosto confuso. Recentemente ne ho scritto la versione cinematografica, dove ho potuto fare alcuni cambiamenti che avrei voluto poter fare al romanzo. Sono dettagli, ma sono importanti, come vedere il personaggio principale, Genly con dei bambini o fare cose a cui pensiamo come cose da donne. Tutte le cose che gli si vedono fare sono azioni da uomo, come fare il politico o tirare una slitta. Le due società nel libro sono qualcosa come una monarchia feudale e il comunismo russo, il che tende ad essere leggermente paranoico. Non so dire perché pensavo che persone androgine dovessero essere paranoiche. Ora, con venti anni di femminismo dietro le spalle, posso immaginare che una società androgina sarebbe molto differente, e molto più interessante, della nostra società sessuata. Per esempio, non bloccherei la gente del pianeta Gethen, dove si svolge la storia, nell'eterosessualità. L'insistenza che i partner debbano essere del sesso opposto è ingenua. Non mi è mai successo di esplorare le loro pratiche omosessuali, e mi pento di aver detto implicitamente che la sessualità doveva essere eterosessuale. Con una certa gradualità compresi che la mia narrativa mi stava dicendo che non potevo più ignorare il femminile.
Mentre stavo scrivendo The Eye of Heron nel 1977, l'eroe insisteva a distruggersi prima della metà del libro. "Ehi", dissi "non puoi farlo, tu sei l'eroe. Dove va a finire il mio libro?". Smisi di scrivere.
Nel libro c'era una donna, ma non sapevo come scrivere sulle donne.
Vagai alla cieca per un po' e poi trovai una guida nella critica letteraria femminista. Fu eccitante scoprire che la critica letteraria femminista era qualcosa che potevo davvero leggere e sfruttare. Lessi The Norton Book of Literature by Women dalla prima all'ultima pagina. Era una bibbia per me. Mi insegno che non dovevo più scrivere come un uomo onorario, che potevo scrivere da donna e sentirmi liberata nel farlo.
WHITE: Sua madre, Theodora Kroeber, era un'affermata scrittrice. Il suo libro, Ishi in Two Worlds, è un classico dell'etnologia.
Che tipo di incoraggiamento le hanno offerto la sua vita e la sua opera?
LE GUIN: Mia madre non era certo una femminista. Non le piaceva nemmeno la parola. Chiamava le femministe "quelle della liberazione delle donne". Ma mi faceva anche domande del tipo, "Perché hai sempre eroi uomini?". E io rispondevo, "Non lo so, mamma. Fammi una domanda più facile!". Così, ho preso molto da lei. Ma verso la fine della sua vita, eravamo un po' in conflitto. Mia madre mi fece anche conoscere Virginia Woolf, che mi ha insegnato molto per tutta la vita. Come romanziere, Woolf è una scrittrice molto più importante di quanto i depositari dei canoni della letteratura inglese vogliano ammettere. In realtà, hanno paura di lei. E a buon diritto. È profondamente sovversiva, e un grande romanziere! Mi rivolgo ancora a lei come guida.
WHITE: Cosa ti ha attirato verso la fantascienza?
LE GUIN: Non ho esattamente scelto la fantascienza. Andai dove mi pubblicavano, il che richiese molto tempo perché la mia opera è cosi atipica. Durante gli ultimi cinquanta o sessant'anni, la letteratura è stata catalogata come "realismo", se non scrivevi del realismo, non eri rispettabile. Dovetti ignorare tutto ciò e dirmi che nella fantascienza potevo fare cose che non avrei mai potuto fare nel realismo. Tendo ad essere un po' pungente su questo argomento perché sono stanca di essere incasellata come scrittrice di fantascienza. Il fatto è che nell'era postmoderna, tutte le barriere stanno crollando molto rapidamente. Ho curato The Norton Book of Science Fiction, che ha ispirato alcune nuove riflessioni su questa materia. Per esempio", ho imparato che la fantascienza è figlia del realismo, non della fantasia: una storia realistica tratta di qualcosa che sarebbe potuto accadere ma non è accaduto, giusto? Molte storie di fantascienza parlano di mondi che potrebbero esistere nel futuro".
Sia il realismo che la fantascienza raccontano storie che potrebbero essere vere. Con la fantasy, semplicemente accettiamo di togliere ogni limite all'immaginazione e seguire la storia, non importa quanto poco plausibile possa essere.
WHITE: Lei non disse una volta che la fantasy può non essere attuale, ma è vera?
LE GUIN: Non si direbbe che ogni tentativo di raccontare una storia è un tentativo di raccontare la verità? È la tecnica usata nel raccontare a essere più o meno plausibile. Alle volte il modo più diretto di raccontare la verità è raccontare una storia totalmente inplausibile, come un mito. Così si evitano tutte le complicazioni legate al fatto che si finge che la storia sia accaduta o accadrà davvero. Chi è che sa come funzionano davvero le storie? Siamo così abituati a storie con tutti quei lacci e laccioli dell'essere realistici ecc., che non riusciamo più a leggere nient'altro. Quando si legge una storia degli indiani d'America, bisogna reimparare a leggere. Non c'è niente in esse che ti aiuti ad inserirti nella storia. Non c’è niente ad addolcire la pillola. Magari c’è un coyote, ma non c'è nessuna descrizione. Siamo abituati a storie ben in carne, e siamo abituati ad essere corteggiati e gentilmente inseriti nella storia.
WHITE: Nora Dauenhaeur, una Tlingit coautrice di Haa Suka (I Nostri Antenati), mi ricordava la scorsa estate che le storie nativo-americane di solito sono raccontate ad un uditorio che già le conosce. Anzi, le hanno già sentite molte e molte volte, durante molti inverni". Questo comporta che il narratore usi spesso un'abbreviazione, una singola parola o locuzione, per rievocare agli ascoltatori con grande ricchezza di dettagli un evento importante. Nora mi fece notare che anche noi raccontiamo storie di questo tipo in continuazione, particolarmente tra amici e familiari con cui condividiamo parte della nostra storia personale. Per esempio, possiamo dire: "Ti ricordi di quella volta che siamo rimasti bloccati da una tempesta di sabbia vicino a Phoenix?". E questa è la storia, tutta qui.
LE GUIN: Si, esattamente. Non si descrive il cielo o le nuvole o cosa stavi indossando. Non c'è niente di tutta questa preparazione della scena nelle storie degli indiani. Mi da un tale fastidio leggere quelle storie adattate. Non sono più sacre.
WHITE: Cos'è, esattamente, che rende sacra una storia?
LE GUIN: Non lo so. Ma quando imbellettiamo una storia indiana, si tramuta in un'altra storia. La nostra cultura non pensa che il narrare storie sia sacro; non vi dedichiamo una apposita parte dell’anno. Non consideriamo sacro niente, eccetto quello che le religioni organizzate dichiarano di considerate tale. Gli artisti seguono un richiamo sacro, anche se alcuni si rifiuterebbero di far considerate sacra la loro opera. Gli artisti sono fortunati ad avere una forma all'interno della quale esprimersi; c'è una sacralità in questo, e un terribile senso di responsabilità. Dobbiamo farlo nel modo giusto. Perché dobbiamo farlo nel modo giusto? Perché è proprio questo il punto: O lo si fa nel modo giusto o è del tutto sbagliato.
WHITE: Tendiamo ad avere una visione del mondo così lineare, causa-ed-effetto. Mi domando se una delle cose che ci attrae verso le storie sia la loro abilità di cambiare la nostra visione del mondo.
LE GUIN: La routine quotidiana della maggior parte degli adulti è così pesante e artificiale che siamo chiusi fuori da gran parte del mondo. Dobbiamo fare così per portare a termine il nostro lavoro. Credo uno scopo dell'arte sia uscire da questa routine. Quando ascoltiamo la musica o la poesia o le storie, il mondo si apre nuovamente davanti a noi. Siamo trascinati dentro, o fuori, e le finestre della nostra percezione sono come ripulite, come diceva William Blake. La stessa cosa può accadere quando siamo accanto a dei bambini o a degli adulti che hanno disimparato queste abitudini di lasciare fuori il mondo. Il narratore tribale non da solo un accesso spirituale ma anche una guida morale. Credo che molta della scrittura Americana oggi sia un'esplorazione di problemi etici. Penso particolarmente ai romanzi di donne nere come Paula Marshall, Alice Walker, Gloria Naylor e Toni Morrison. Le storie scritte da queste donne si stanno guadagnando una grande fama letteraria, ma stanno anche facendo qualcosa di terribilmente importante per il loro popolo, che non è solo quello degli Americani neri, ma tutti gli Americani. In un certo senso, queste donne stanno assumendo l'antico ruolo del narratore tribale, perché stanno cercando di portarci dentro altri regni spirituali e morali. Sono intensamente serie in questo loro compito, ecco perché i loro romanzi sono così amati.
WHITE: le storie ci aiutano anche a ricordare chi siamo. Ne Il libro del riso e dell'oblio, Milan Kundera dice, "Cos'è il sé se non la somma di tutto ciò che ricordiamo?"
LE GUIN: Si. La parola inglese per ricordare, to remember, significa proprio, se il mio latino è corretto, mettere assieme le parti.
Così implica che ci siano dei modi di perdere delle parti di noi.
Kundera parla anche di quest’aspetto del raccontare storie. In effetti dice che la Storia (history), che è un altro tipo di storia (story), spesso è deliberatamente falsificata per far dimenticare ad un popolo chi è o chi era. Lui lo chiama "il metodo dell'oblio razziale". La Storia è un modo di raccontare storie, proprio come il mito, la fiction, o la narrazione orale. Ma negli ultimi cento anni, la Storia si è appropriata delle altre forme di narrazione per via della sua pretesa di essere la verità assoluta. Cercando di essere scienziati, gli storici si mettevano ad osservare la Storia dall'esterno e ne narravano la storia. Tutto ciò è cambiato radicalmente da cent'anni a questa parte. Oggi gli storici ridono della pretesa di rappresentare la verità oggettiva. Sono concordi nel dire che ogni epoca ha la sua (visione della) Storia, e se anche ci fosse una verità oggettiva non la potremmo raccontare con le parole. La Storia non è una scienza, è un'arte. Ci sono ancora persone che insistono ad insegnare la Storia come una scienza, ma non è più il metodo seguito dalla maggioranza degli storici. Mio marito, Charles, che è uno storico, dice: "Io non so la differenza fra una storia e la Storia.
Credo che potrebbe trattarsi di una differenza non nel tipo, ma nei loro tentativi di essere veritiere". La Storia degli ultimi cent'anni ha ancora un pregiudizio terribile verso il punto di vista degli Europei, dei bianchi. Essendo la Storia definita dagli storici come memoria scritta, tutte le tradizioni orali e quindi la maggior parte dei popoli indigeni sono stati così, convenientemente, resi fin dall'inizio come dei figli illegittimi della loro stessa Storia. In effetti, in quest’ottica, tutti tranne gli Europei bianchi sono "primitivi" (1). Se non si ha un linguaggio scritto non si è parte della storia.
WHITE: I cambiamenti attuali nel nostro modo di vedere la Storia stanno cambiando anche il modo-in cui guardiamo alle culture indigene?
LE GUIN: Certamente si. È un processo di decentralizzazione. Per troppo tempo abbiamo creduto che l'Europa fosse al centro del mondo. Con l'aiuto degli antropologi, ed ora degli storici, stiamo scoprendo che non c'è nessun centro. O che ci sono molti centri. Nessuno possiede "la risposta". È incredibile quanta resistenza ci sia. Tanti vogliono essere "il popolo", tutti vogliono essere "il centro". E davvero tutti sono il centro, se solo lo capissero e non schernissero tutti gli altri centri.
WHITE: Dato che la storia, come è stata praticata finora, si occupa solo della testimonianza scritta, il linguaggio acquista un'importanza sproporzionata nella nostra percezione della realtà. Al pari della Storia, il linguaggio può diventare uno strumento per dimenticare, uno strumento di estraniazione. Come scrittore, cosa fai per contrastare questa tendenza?
LE GUIN: Questo è un campo minato. Come scrittori, si cerca di rendere il linguaggio genuinamente significativo, e che voglia dire esattamente ciò che dice. Ecco perché il linguaggio dei politici, che non contiene nient'altro che segnali grezzi (2), è qualcosa da cui uno scrittore deve stare il più lontano possibile. Se crediamo che le parole siano atti, come credo, allora dobbiamo considerare gli scrittori responsabili di quel che fanno le loro parole. Una delle cose più strane nella nostra cultura è la nostra abilità a descrivere la distruzione de! mondo in maniera squisitamente dettagliata, bellissima persino. L'intera scienza dell'ecologia, per esempio, descrive esattamente cosa stiamo sbagliando e quali ne sono gli effetti globali. La cosa strana è che ci innamoriamo a tal punto del nostro linguaggio e della sua abilità a descrivere il mondo da creare una falsa ed irresponsabile separazione. Usiamo il linguaggio come un mezzo per prendere le distanze dalla realtà. Chi vive secondo natura nel suo ecosistema non ha una parola per esso. Lo chiamerebbe semplicemente il mondo. Non possiamo ristrutturare la nostra società senza ristrutturare la nostra lingua. L'una riflette l'altra. Molta gente comincia ad essere stanca del lungo repertorio di metafore che si riferiscono alla guerra ed al conflitto. La "lotta alla droga” ne è un ovvio esempio. Idem per la proliferazione delle metafore prese dalle battaglie, come essere un guerriero, combattere, sconfiggere eccetera. In risposta, potrei dire che una volta divenuti consapevoli di queste metafore, potremmo cominciare a "lottare" contro di esse. Questa è una scelta possibile. Un'altra è capire che il conflitto non è la sola risposta umana ad una situazione e cominciare a trovare altre metafore, come resistere, giocare d'astuzia, evitare, sovvertire. Questo tipo di consapevolezza può aprire la porta ad ogni sorta di nuovi comportamenti. Sono stupita di quanto parliamo di rinascere e mai di rigenerare. Eppure sia le donne che gli uomini sono capaci di rigenerare, le donne letteralmente e gli uomini metaforicamente. Ecco, una porta si apre solo cambiando il nome.
Non abbiamo bisogno di rinascere; possiamo rigenerare. Questo fa porte del mestiere di scrittore: o rigenerare le metafore o rifiutarsi di usarle. La metafora lunga ua vita di Gary Snyder è lo spartiacque.
Com’è stata fertile di coseguenze! Un'altra sua metafora è il compostaggio, una parola deliziosa che descrive la pratica della creazione
WHITE: Che ruolo ha avuto nellE sue opere l'interesse per i popoli indigeni?
LE GUIN: All’inizio non ero consapevole che avesse un ruolo.
Anche se mio padre era un antropologo e un archeologo, tutta la mia istruzione accademica in questo campo consiste in un corso di antropologia fisica. Naturalmente avevo una certa affinità di carattere con mio padre, ma dico spesso che lui studiava le culture che esistono davvero e io le creavo. Aveva un occhio acutissimo e grande interesse per gli esatti dettagli concreti. Aveva anche una grande considerazione per i manufatti e come funzionano le cose. In questo ho preso molto da lui. Quando ho cominciato a pensare a Always Coming Home mi occorse molto tempo per capire che libro sarebbe diventato. Quando capii che volevo che si sviluppasse dalla Napa Valley andai alla ricerca di un precedente letterario. Non riuscii a trovare niente a parte un/ paio di romanzi pretenziosi sulle famiglie di vignaioli italiani. L'unica letteratura di quella terra era la letteratura orale nativo-americana. Perfino la gente della valle, i Wappo, sono spariti. Il nome stesso della loro stirpe è sparito. Alcuni hanno un po' di sangue Woppo, ma non ci sono più né la lingua, né le tradizioni, né storie. Allora lessi altri miti e leggende e canzoni della California del Nord. Ce n’erano una bella quantità. Mio padre ne aveva raccolte molte da sé. Attinsi a tradizioni raccolte in tutti gli Stati Uniti. Il mio problema era trovare un modo per usare questa letteratura senza plagiarla o sfruttarla, come è stato fatto spesso con la letteratura degli indiani. Certamente non volevo piantare un po' di indiani in mezzo alla Napa Valley del futuro. Non sarebbe stato quello che stavo cercando di fare. Quel che ricavai dalla lettura della letteratura orale della California era il senso di una diversa qualità della vita. Non possiamo più ascoltare le voci, ma possiamo ancora raccoglierne le sensazioni.
WHITE: La comunità Kesh sono sature di rituale. Hanno feste della luna, dell’acqua, dell’'estate, de vino e dell’erba per celebrare i cicli della natura. Danzano insieme in occasione dell’equinozio e del solstizio. Da dove hai preso la tua comprensione del rituale e che ruolo ha secondo te in una cultura sana?
LE GUIN: Tutto quel che so del rituale l'ho imparato dai libri. Non ho mai vissuto in una cultura come quella di Always Coming Home. Ciò di cui stiamo parlando qui è in parte un problema di tattica letteraria. Il libro è fatto di parole. I Kesh devono avere molti rituali verbali affinchè io possa scrivere ciò che fanno. E i loro rituali devono essere vivi e interessanti in modo che possano essere raccontati attraverso le storie e le poesie. Non ero consapevole di questo processo mentre stavo scrivendo il libro, ma ora so che è così che funziona. Questi rituali sono parte del contesto del libro, ma servono anche a mostrare una società che vive bene, senza fare del male, ma che allo stesso tempo non se ne stanno con le mani in mano a far niente. Come una foresta in espansione, la società Kesh è in buon equilibrio. Hanno una tecnologia raffinata ma non una tecnologia sviluppata. Possono cambiare i dettagli e lo stile del modo in cui fanno le cose, ma non rapidamente o radicalmente come in una società basata su una tecnologia avanzata come la nostra. Un modo per mostrare la differenza nel modo di vivere dei Kesh è mostrarli impegnati nel rituale di feste e attività ripetute. I rituali stagionali rivelano quanto i Kesh siano in armonia col tessuto dell'esistenza, dell’ambiente, della cultura. Tutto scorre in un’unica direzione.
Deve esserci un profondo aspetto rituale nella maggior parte delle culture nativo americane sane. Ho usato i Pueblo e gli Hopi in qualche misura come modelli. Hanno molti comportamenti ritualizzati, ma sono molto facili e informali. Quando vado ai powwow mi colpisce quanto sembrino casuali. È un rituale, però la gente chiacchiera e ride tranquillamente e i bambini corrono in giro.
Tutto sembra molto appropriato. Il rituale delle religioni organizzate è un altro genere di cose. È qualcosa di separato, gerarchico, e incentrato sul maschio. Se tutti compiono il rituale tutto il tempo, come se fossero nelle culture nativo americane, la religione e la vita sono assolutamente inseparabili.
WHITE: Il tuo apprezzamento per il rituale è cambiato nel corso della scrittura del libro?
LE GUIN: Una ragione per cui odiai finire il libro era che così dovetti smettere di considerare il trascorrere dell’anno come fossi una Kesh. Mi piaceva. e mi sentivo a casa mia in quel contesto. Vivere con un consistente ciclo di attività, relazioni rituali, cerimonie e feste e il modo in cui hanno vissuto la maggior parte delle persone nella maggior parte delle civiltà nel corso della storia umana.
WHITE: I Kesh si riferiscono al periodo che seguì l'era Neolitica per alcune migliaia di anni come il tempo in cui la gente visse "fuori dal tempo". Che cosa hai voluto dire?
LE GUIN: Stavo giocando con l'idea delta nostra attuale tecnologia sviluppato dalla rivoluzione industriale a oggi, Negli ultimi duecento anni. Non sappiamo quando finirà questo periodo, ma finirà. Noi tendiamo a pensare che la nostra attuale epoca storica rappresenti la più alta evoluzione della società umana. Siamo convinti che la nostra tecnologia in rapida crescita, basata sullo sfruttamento intensivo delle risorse, sia la sola realtà possibile. In Always Coming Home, metto la gente che crede in questo in una piccola capsula dove i Kesh li possono guardare da fuori come fossero strane aberrazioni. È stata la cosa più irrispettosa che potessi fare, come avvolgere in tondo il cellophan. È come una di quelle metafore di Coyote.
WHITE: Parliamo di Coyote: le sue apparizioni in molti dei tuoi libri più recenti. Come l'hai incontrata?
LE GUIN: Facevo delle incursioni in un mio progetto nel 1982. Era un saggio sull’utopia intitolato "Una visione non-euclidea della California come un posto freddo in cui vivere", e quando le impronte dell'utopia e di Coyote si incrociano, pensai, "Si, ora stò incominciando a capire!'' L’idea che dell’utopia fino ad oggi è rimasta per troppo a lungo in una fase di cliché. La maggior parte delle opere sono simili a Ecotopia di Challenbach, che è un ennesimo "Vedi come sarebbe bello il futuro se facessimo questo e quello?” O, nella science-fiction, c'è stata la distopia: l'utopia voltata in amaro. Questi cliché non funzionano più. È un'anarchica, Può confondere: tutte le idee civilizzate semplicemente facendo delle incursioni. E non manca mai di smontare i pieni di sé. Proprio quando le tue idee cominciano ad essere inquadrate e organizzate, lei te le incasina tutte. Le cose non saranno mai belle pulite e ordinate, questa è l’unica cosa di cui si può essere certi. Coyote cammina attraverso tutte le nostre menti. Naturalmente, abbiamo bisogno di un imbroglione, un creatore che ha fatto il mondo tutto sbagliato. Abbiamo bisogno dell’idea di un Dio che fa degli errori, si caccia nei guai, e che si identifica con un piccolo animale arruffato.
Note del traduttore;
I) Va detto che la storiografia positivistica non è stata così etnocentrica come pensa U. Le Guin: la sua scure si è abbattuta anche su parti importanti del passato del mondo occidentale, come i Re di Roma, la Bibbia, Artù, Orlando….
2) naturalmente la scrittrice sta parlando dei politici americani…
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